Si scrive autonomia differenziata, si legge disuguaglianza potenziata

La legge approvata risponde principalmente alle richieste delle regioni del Nord ed è finalizzata a differenziare l’azione pubblica, con evidenti vantaggi per le regioni più ricche. (Il Mulino – Filippo Sbrana)

Fino a prova contraria “autonomia” significa per le regioni maggiore potere decisionale e più consistente dotazione finanziaria: per essere autonomi infatti bisogna essere in grado di decidere e per essere in grado di decidere occorrono i soldi per attuare le decisioni.

Il termine “differenziata” poi significa che esiste una differenza sostanziale tra i livelli di autonomia da regione a regione a seconda delle loro scelte e delle loro possibilità finanziarie: una sorta di liberi tutti e di spinta ad arrangiarsi più che a ben amministrare.

Le regioni, nate per favorire la partecipazione popolare dei cittadini e migliorare l’azione dello Stato, hanno dato numerose prove di inadeguatezza. (Il Mulino – Filippo Sbrana)

La nuova legislazione in materia regionale presenta diverse evidenti criticità. Innanzitutto le regioni hanno dato pessima prova di loro stesse in questi oltre cinquant’anni dalla istituzione dell’ordinamento regionale, mancando i due obiettivi principali, vale a dire l’efficienza sburocratizzante o la sburocratizzazione efficientante da una parte, l’avvicinamento e la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica dall’altra parte. Ero tra gli speranzosi, ma giorno dopo giorno, da semplice cittadino, da professionista alle prese con la macchina regionale e da osservatore politico attento ai rapporti tra pubblici poteri e bisogni della gente, devo ammettere di essere rimasto profondamente deluso: maggiore burocrazia, peraltro meno esperta e più titubante, nessun miglioramento nell’efficienza dei servizi e immutata se non crescente lontananza fra cittadino e chi lo amministra.

Solo in anni recenti, con l’affermazione della Lega, di Silvio Berlusconi e la nascita della Seconda Repubblica, l’asse geografico delle priorità è stato spostato verso Nord. (Il Mulino – Filippo Sbrana)

In secondo luogo la regionalizzazione ha purtroppo aumentato il divario economico, sociale e finanche culturale tra il nord ricco e il sud povero, mancando totalmente l’obiettivo della responsabilizzazione meridionale che avrebbe dovuto sostituirsi all’assistenzialismo centralista. Purtroppo è sempre così: quando si vuole rendere il cittadino protagonista del soddisfacimento dei propri bisogni, si finisce con l’abbandonarlo a se stesso.

Ebbene, accentuando l’autonomia non si può che finire con l’aumentare i difetti del regionalismo, rinviandone gli eventuali pregi a data da destinarsi. Regioni gonfiate di poteri e soldi a scapito delle regioni in difficoltà ad autogestirsi per mancanza di capacità amministrativa e di soldi. E lo Stato che starebbe a guardare…

Capisco l’enfasi legislativa della Lega che confonde il decentramento con l’opzione nordista, la regionalizzazione con la secessione, il liberismo territoriale con l’autoritarismo discriminatorio: il sogno, peraltro sbiadito e incasinato, dei padri fondatori, viene realizzato sbrigativamente, contraddittoriamente ed illusoriamente.

Capisco molto meno l’entusiasmo di Fratelli d’Italia in netta controtendenza con la sua nostalgica impostazione patriottica e nazionalista, giustificato solo dal lontano traguardo del premierato, che dovrebbe rappresentare l’altra faccia del nuovo ordinamento istituzionale, mentre è soltanto la succosa merce di scambio in uno pseudo-parlamentare mercato delle vacche.

Capisco ancor meno Forza Italia che si illude di ritrovare il ruolo berlusconiano di saldatura tra il velleitario nordismo leghista e il passatista revanchismo nazionalista, portando a casa soltanto una fantomatica riforma della giustizia come quadratura del cerchio riformista.

La sostanza dell’azione dell’attuale governo di centro-destra, con l’ossequio di un Parlamento che confonde il potere legislativo con la rissosa tossicodipendenza da droga melonian-salviniana, consiste nel “divide et impera”, una locuzione latina usata per indicare l’espediente di una tirannide o di qualsiasi altra autorità per controllare e governare un popolo, che consiste nel dividerlo in più parti, soprattutto provocando rivalità e fomentando discordie tra di esse.

Il dibattito sta rilanciando la contrapposizione fra Nord e Sud, poiché ha favorito una discussione molto divisiva. Nelle aree settentrionali si rafforza l’idea che il Mezzogiorno usi il ritardo per vivere sulle tasse altrui, mentre al Sud si soffre per il crescente antimeridionalismo. (Il Mulino – Filippo Sbrana)

 Si parla di rivolta dei governatori del Sud dopo l’approvazione dell’Autonomia e speriamo che non succeda come a Reggio Calabria, cinquant’anni fa, quando si decise che il capoluogo della Calabria sarebbe stato Catanzaro, per otto mesi ci furono proteste, attentati e scontri con la polizia, con cinque morti e decine di feriti. Allora il Movimento Sociale Italiano pilotò e strumentalizzò politicamente la sommossa, oggi, ironia della storia, i suoi eredi sono dalla parte del manico, vale a dire di chi crea i presupposti per inevitabili proteste meridionaliste, che speriamo rimangano nel solco della democrazia.

Ci sono però anche non poche incongruenze a livello del Partito democratico, nella sua azione politico-parlamentare di opposizione a questa deriva riformista, che giustamente grida al lupo davanti allo scempio istituzionale che si sta perpetrando, ma che non è esente da colpe nel passato: mi riferisco alla sconclusionata riforma del titolo quinto della Costituzione riguardante proprio i poteri regionali e al conformismo autonomistico emiliano-romagnolo rispetto alla partenza del discorso dell’autonomia differenziata pilotata dalle regioni a guida leghista (Veneto e Lombardia). Non si voleva evidentemente lasciare alla Lega e ai suoi territori la paternità assoluta di quello che strada facendo è diventato un autentico pateracchio riformista. Ci si è illusi di chiudere la stalla per non far scappare i buoi, salvo ritrovarseli allevati all’aperto.

Dulcis in fundo. Uno dei punti critici di questa riforma sono i Livelli essenziali di prestazione (Lep), che rappresentano i requisiti minimi di servizio da garantire in modo uniforme in tutto il territorio nazionale, per assicurare i diritti sociali e civili sanciti dalla Costituzione. A parte che già l’averli teoricamente previsti è un’ammissione di colpevolezza, dovrebbero essere il meccanismo atto ad evitare il peggio, vale a dire che gli squilibri territoriali ricadano sulla pelle dei cittadini: una sorta di “caso mai” c’è sempre lo Stato che appiana le diversità insopportabili. Dicono però che su questa partita non ci sia il becco d’un quattrino e allora anche questa valvola di sicurezza ha il sapore di beffa finale, di ciliegina ancor più amara su una torta già anche troppo amara e indigesta.