Nel periodo in cui mio padre lavorava da imbianchino come lavoratore dipendente si trovò ad eseguire un lavoro del tutto particolare, scrivere sui muri, a caratteri cubitali, motti propagandistici fascisti (“vincere”, “chi si ferma è perduto” e roba del genere).
Al geometra che sovrintendeva, ad un certo punto, tra il serio ed il faceto disse: “Quand è ch’a gh’dèmma ‘na màn ‘d bianch?”. “Beh”, rispose in modo burocratico, “per adesso andiamo avanti così, poi se ne parlerà. A proposito cosa dice la gente che passa?”. Era forse un timido ed innocuo invito ad una sorta di delazione, ma mio padre, furbamente, non ci cascò ed aggiunse: “Ch’al s’ mètta ‘na tuta e ch’al faga fénta ‘d njent e ‘l nin sentirà dil béli”. La zona era infatti quella del Naviglio, autentico covo di antifascismo e papà mi raccontò come, tutti quelli che passavano di lì, uomini, donne e bambini le sparassero grosse anche contro di lui, senza tener conto del famoso detto “ambasciator non porta pena”.
Mio padre era figlio dell’Oltretorrente, il rione dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà.
Ne conosceva tutti gli abitanti, contava moltissimi amici nel quartiere, ne aveva frequentato le osterie (dove si osava parlar male del fascismo e di Mussolini), le barberie (luogo allora di ritrovo e del gossip più antico e leale), aveva cantato e discusso di musica nei covi popolari e verdiani, aveva respirato a pieni polmoni un’aria sana e democratica e quindi non poteva farsi intossicare dal fascismo. A proposito di osterie mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto), che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!” Lo stesso popolano dell’Oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira.
Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Ricordo che, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così ed è così, in forme e modi più moderni, ma forse ancor più imponenti e subdoli, anche oggi in Italia.
Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io.
Ascoltavo ancora bambino questi racconti, per me quasi immaginari, ma tutt’altro che fantasiosi. Nell’osteria a due passi dalla casa della mia fanciullezza si raccoglievano firme per una petizione di carattere politico: fecero firmare anche un ingenuo e sordo vecchio amico con l’illusione di sottoscrivere una richiesta di rimozione per un fetido e puzzolente vespasiano della zona (non c’era sostanziale differenza…). Per fortuna l’iniziativa non creò grane, ma l’Oltretorrente era questo: genio e sregolatezza, musica e politica, risate ed all’occorrenza…