In realtà, al di là delle punzecchiature dialettiche più o meno velenose, le divisioni sono molto più di sostanza di quanto non appaia. E riguardano la natura stessa del sindacato, i limiti e obiettivi del suo agire. La Cgil di Landini ha scelto da tempo una linea movimentista e di impegno fortemente “politico” della confederazione. Costruendo una rete di alleanze con il mondo associativo – non solo di sinistra ma anche cattolico – sui temi della pace, della difesa della Costituzione e l’impegno su tutti i campi di politica sociale: dalla sanità (una manifestazione nazionale è già in programma per sabato 20) alla scuola passando per la precarietà e il lavoro. Fino alla scelta di promuovere quattro referendum contro il contratto a tutele crescenti, i contratti a termine, gli appalti e annunciarne altri due contro l’autonomia differenziata e il premierato se verranno approvati. Un programma “politico” – che non significa partitico – a tutto tondo, con la Cgil intenzionata a condizionare e di fatto guidare una nuova sinistra unita in opposizione all’attuale maggioranza di Governo.
La Cisl, invece, ha programmi certamente più aderenti alla tradizionale azione sindacale: contrattare tutto a tutti i livelli. E spingere per cambiare il sistema economico dal basso verso un modello partecipativo, che superi la dicotomia conflittuale tra capitale e lavoro.
Passando per un confronto “laico” con la maggioranza politica di turno. Ora, però, la confederazione di via Po rischia di scontare un isolamento e di essere percepita come troppo accondiscendente alle politiche delle forze di centrodestra. E finire divisa al proprio interno, ad esempio, tra un Nord che vede di buon occhio l’autonomia differenziata e un Sud che la teme.
Di per sé le due strade di Cgil e Cisl possono scorrere parallele senza scontrarsi pericolosamente. A meno che – a furia di dichiarazioni forti – non riprendano gli assalti alle sedi della Cisl e le intimidazioni ai suoi dirigenti, che si sono già visti purtroppo in passato. E che se si ripetessero non produrrebbero nulla di buono. Mentre i lavoratori per essere meglio tutelati – e festeggiare insieme – hanno bisogno innanzitutto di avvertire rispetto e stima reciproca tra le confederazioni. (dal quotidiano “Avvenire” – Francesco Riccardi)
“Sit a pòst coi sindacät?”: era un modo di dire per significare la durezza dello scontro con i sindacati dei lavoratori e la loro intransigenza nella difesa dei lavoratori stessi. La storia è ricca di contrasti nella strategia sindacale fra una linea diciamo pure “politica” e una linea diciamo pure “contrattuale”. Non sempre questa dicotomia ha coinciso con le sigle sindacali: a volte in passato la CISL, tradizionalmente più moderata, ha superato la CGIL. C’è stata poi l’epoca dell’unità sindacale su cui mi permetto di essere tuttora convintamente e culturalmente attestato. Fra i due modelli che sembrano riprendere corpo introdurrei il terzo modello, quello appunto dell’unità sindacale in un periodo caratterizzato dalla virulenza delle problematiche economico-sociali, dalla debolezza della politica e dalla deriva del tutti contro tutti.
Sono saltati tutti gli schemi, anche quelli partecipativi, e quindi è perfettamente inutile dividersi sui vecchi schemi superati dalla realtà dei fatti e nella mentalità della gente. La tentazione di scendere in piazza è forte (personalmente ci vivrei giorno e notte), ma probabilmente non risponde più alla sensibilità di chi vuol far valere le proprie sacrosante ragioni. L’arma dello sciopero è spuntata in una società liquida se non addirittura polverizzata. I bracci di ferro non portano da nessuna parte, a volte risultano addirittura controproducenti.
Ho grande stima ed ammirazione per Maurizio Landini, l’unico personaggio che evidenzia una passione coinvolgente, ma temo che rischi di sprecarla nell’impazienza della protesta, su cui la sinistra politica è assai carente, e nella smania di scalfire la scorza dura del conformismo, che si sta formando intorno alla destra.
Non dico di ripiegare su un comportamento corporativo e contrattualistico, sarebbe un perfetto assist a chi vuole fare a fette la società; ma nemmeno di puntare in modo velleitario sulla lotta politica, candidandosi ad un ruolo marginale e anacronistico di “lotta delle masse”. Il sindacato fra l’altro ha molti equivoci alla base dei suoi iscritti e non deve solo tenere calda la partecipazione all’interno scaricando le tensioni nelle piazze. Così come non deve dividersi sul metodo trascurando il merito.
È un momento storico molto delicato e difficile, bisogna ricostruire (quasi) tutto: l’unità sindacale dovrebbe essere uno dei punti fondamentali di questa ricostruzione. Ho l’impressione che i lavoratori non credano più nel sindacato così come non credono più ai partiti. Le cosiddette forze intermedie hanno perso ruolo e consenso. Nessuno ha in tasca ricette facili: i partiti non devono snobbare i sindacati (considerandoli un male necessario) e i sindacati non devono rubare il mestiere ai partiti (pungolarli sì, ma non illudersi di sostituirli).
Gli scioperi (spesso più divisivi che generali) mi sembrano tentativi di recuperare fiducia dai lavoratori piuttosto che di incidere nel tessuto economico-sociale e nelle sue clamorose ingiustizie.
L’unica strada percorribile penso sia quella di individuare alcuni valori fondamentali e alcuni conseguenti obiettivi politici per costruire attorno ad essi condivisione e partecipazione, senza fughe in avanti e senza freni a mano tirati. La sanità e la sicurezza sul lavoro sono probabilmente i punti caldi da cui partire, che toccano tutti mettendo tutti a nudo nelle loro assolute necessità. Poi vengono anche l’occupazione, i salari, le pensioni, etc. etc. Partiamo in prima e non in quarta e viaggiamo insieme con molta pazienza (che non vuol dire arrendevole debolezza) e un pizzico di fantasia (per evitare schemi logori e superati).