Durante la breve conferenza stampa nel viaggio di ritorno da Marsiglia, a papa Francesco è stata posta una domanda piuttosto insidiosa e delicata, a cui peraltro lui ha risposto in modo, a mio giudizio, dogmatico, come non è nel suo stile.
“Con Macron ha parlato della legge a favore dell’eutanasia che si sta approvando in Francia. E cosa gli ha detto?”.
«Oggi non ne abbiamo parlato, ma lo abbiamo fatto l’altra volta, in Vaticano. Gli ho detto il mio parere, chiaro. Con la vita non si gioca, né all’inizio né alla fine. Nel romanzo Il padrone del mondo del 1903 si fa vedere come andranno le cose: la morte dolce, la selezione prima della nascita… Oggi stiamo attenti con le colonizzazioni ideologiche che rovinano la vita umana. Oggi si cancella la vita dei nonni, sono vecchi non servono. Con la vita non si gioca. Sia con la legge per non lasciare che cresca il bambino nel seno della madre, sia con l’eutanasia per le malattie e la vecchiaia. Non è una cosa di fede, è una cosa umana. C’è la brutta compassione. Con la vita non si gioca».
Non credo che chi disperatamente sceglie di interrompere la propria vita a causa di sofferenze non più sopportabili e inumane intenda scherzare con la propria vita, al contrario credo che ne voglia difendere la dignità.
Cosa significa che con la vita non si gioca? Niente pillole del giorno dopo (per la verità nemmeno quelle del giorno prima), niente aborto volontario nemmeno nei casi più estremi di violenza subita, niente eutanasia nemmeno nei casi di malati terminali con le loro sofferenze atroci. Non intendo mettermi a discutere sul piano scientifico e teologico su questi temi eticamente sensibili, su questi argomenti caldi, sui cosiddetti principi irrinunciabili (quante rinunce alla carità ha fatto la Chiesa nei secoli…).
Per quanto concerne il controllo delle nascite mi rifaccio a mia sorella, che andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente e dei principi (anche religiosi), la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della declamazione di dogmi, per poi diventare concreta solidarietà e risposta politica. Ricordo come, da cattolica convinta e praticante, di fronte alle immagini di popolazioni sofferenti per fame e denutrizione, dicesse senza evidenziare dubbio alcuno: «Occorrono vagoni e vagoni di pillole anticoncezionali, altro che balle…».
In materia di aborto mi limito a riportare un episodio altolocato. Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Ilarion Capucci venne presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Capucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiabortista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…». Con tutto il rispetto per l’allora papa e oggi santo, credo che pregare sia importante, ma non basti.
In ordine al problema del fine vita oso, per un attimo, riferirmi alla parabola evangelica del Padre misericordioso, molto eloquente sull’atteggiamento divino nei confronti della creatura umana. Provo a mettere al posto del figlio prodigo un malato terminale (il caso più clamoroso che in un certo senso li riassume tutti). Non ce la fa più a sopportare il dolore, è disperato, non trova più la forza di vivere e dice fra sé: «Voglio tornare da mio padre, perché non riesco più ad andare avanti così…». Il padre commosso lo accoglierà a braccia aperte e gli dirà: «Ti aspettavo, ho visto che non riuscivi più a reggere la situazione e hai fatto bene a tornare, è tutto finito, ora sei con me e voglio che tu sia felice con me, non ci lasceremo più…». Ci sarà anche il figlio rompicoglioni che insorgerà e protesterà: «Ma tu non ci hai insegnato che la vita è sacra e che solo tu ce la puoi dare e togliere…». E allora il padre ribatterà: «Tu hai fatto tutto quel che potevi per alleviare le sofferenze di questo tuo fratello? Questo era il tuo compito. Tocca a me giudicare se questo tuo fratello non riusciva più umanamente a vivere, solo io posso capirlo perché ho sofferto con lui e per lui e ora lo prendo con me nella vita eterna che gli ho conquistato sulla Croce». E si farà festa…
Tornando alle parole di papa Francesco, preferisco la brutta compassione alla bella teorizzazione. Chi soffre non ha bisogno di principi in cui affogare, ma di comprensione in cui respirare. Certo, bisogna vigilare affinché le regole della società non approfittino della sofferenza per autorizzare l’arbitrio. Ma questo mi sembra un altro discorso. L’integralismo cattolico con le sue forzature dogmatiche non porta da nessuna parte. Papa Francesco lo sa benissimo e generalmente ne tiene conto, salvo qualche non piccola caduta di magistero.