Il fiato sul covid

Nell’amministrazione pubblica, tutti i lavoratori e dipendenti pubblici, anche chi lavorerà in smart working dal 15 ottobre dovrà comunque essere munito di green pass. Chi non possiede il green pass non potrà lavorare neanche in smart working e sarà quindi considerato, come chi lavora in presenza, in periodo di assenza ingiustificata. Il Messaggero pubblica questa postilla, che fa parte delle novità inserite nella bozza delle linee guida redatte dal ministro della Funzione Pubblica Brunetta e da quello della Salute Speranza. 

 «Non è consentito, in alcun modo», si legge nella bozza delle linee guida, «che il lavoratore permanga nella struttura, anche a fini diversi, o che il medesimo sia adibito a lavoro agile in sostituzione della prestazione non eseguibile in presenza».

Insomma, le norme non si potranno aggirare e non sarà in nessun modo consentito “…in quanto elusivo del predetto obbligo, individuare i lavoratori da adibire al lavoro agile sulla base del mancato possesso di tale certificazione”. Ma non è tutto. Non basterà per chi lavora in smart working dichiarare di avere il green pass, ma dovrà essere in grado di mostrarlo altrimenti, anche in questo caso, sarà ritenuto assente ingiustificato. 

Ricordiamo anche che negli uffici pubblici tutti, compresi i visitatori o i componenti delle giunte e delle autonomie locali e regionali, dovranno avere la certificazione verde o non avranno accesso.

L’eccezione è data solo dagli utenti che si recano agli sportelli di un ufficio pubblico per avere un servizio. In quel caso non sarà richiesto il green pass ma restano ovviamente in vigore le regole di capienza, distanziamento e l’obbligo di indossare la mascherina”.

Una notizia del genere mi induce a buttarla sul ridere. Tra i paragoni impossibili espressi in dialetto parmigiano dal grande Bruno Lanfranchi ce n’era uno che diceva così: “al gh’äva un fiä tant cativ che nes rezistèva gnanca a parlärog par telefono”.

Anche mio padre (non) scherzava sulle regole paradossalmente rigide. Dopo tanti anni vissuti in una vecchia casa dell’oltretorrente, in un appartamento privo di ogni e qualsiasi comodità (come succedeva un tempo…), andare ad abitare in un alloggio nuovo, dotato dei comfort essenziali, fu per mio padre una storica conquista. C’era però il rovescio della medaglia: si trattava di un condominio con ben tredici unità immobiliari, mentre eravamo abituati a vivere con un solo coinquilino, peraltro legato a noi da vecchia e consolidata amicizia. Era il prezzo accettabile da pagare alla conquistata modernità. L’approccio alla vita in condominio fu morbido, all’insegna del battutistico buonumore paterno. Alla prima assemblea condominiale mio padre partecipò con ovvia curiosità mista a tradizionale disponibilità al dialogo e alla collaborazione. Si trovò alle prese con un regolamento rigido al limite del carcerario. Ne fu impressionato, ma non si scoraggiò, affrontò la situazione a modo suo, dando subito l’idea a tutti della propria indole. Tra i vari ed articolati divieti esisteva anche quello inerente gli animali domestici: non si potevano tenere cani, gatti, canarini, etc. La mia famiglia non aveva simili abitudini: eravamo stati purtroppo alle prese solo con i topi, che viaggiavano nell’androne delle scale di una casa piuttosto malsana, attirati oltretutto da un confinante magazzino di farina e che, con la loro immanente e invadente presenza, ossessionavano ogni rientro in casa, soprattutto serale.  Mio padre colse al volo l’occasione e chiese, con piglio provocatorio anche se bonario: «A s’ polol tgnir un can ‘d stòppa chi àn regalè a mè fjóla?». L’immagine, riconducibile all’odierno animaletto di peluche, gli serviva anche quando eravamo alle prese con un cane in carne ed ossa e manifestavamo una certa paura a cui il proprietario dell’animale rispondeva con la solita frase: «Ma il mio cane è buono, non fa niente…». Allora mio padre era costretto a precisare: «Ch’ al guärda…mè fjól al gh’à paura anca d’un can ‘d stòppa, quindi…».