Quando può servire prendere paura

Il calcio non è un fenomeno di coesistenza pacifica, prevede scontri abbastanza forti, con un agonismo acceso che coinvolge anche il pubblico. É chiaro che il pubblico non può essere distaccato e inamidato, è partecipe, qui sta il bello. Ma ci devono essere dei limiti e qui sta il difficile. Solo una volta, mi è capitato di vedere il pubblico in controtendenza rispetto all’eccesso di agonismo in campo. Vale la pena aprire questa piccola parentesi. Durante una partita di serie A tra Parma e Sampdoria, la tensione in campo stava assumendo dimensioni pericolose, l’arbitro stentava a controllare la gara, i giocatori tra falli e reazioni stavano veramente esagerando. C’era di che preoccuparsi, ma entrarono in campo (si fa per dire) le due tifoserie che dalle curve contrapposte si scambiarono cori di incitamento e di simpatia reciproci (i sampdoriani gridavano: Parma! Parma e i parmensi rispondevano: Doria! Doria!). Tutto il pubblico capì ed applaudì intensamente. I giocatori furono contagiati da tanto fair play e la partita si incanalò sui binari dell’assoluta correttezza. Confesso di essere rimasto colpito ed emozionato dall’episodio.

Tifosi danesi e finlandesi insieme, per Eriksen, il giocatore danese crollato in campo per un improvviso quanto drammatico arresto cardiaco. Lo stadio ammutolisce, ma quando alle 19.38 arriva la notizia che il giocatore ricoverato in ospedale, dopo il malore in campo e la grande paura, è sveglio e fuori pericolo lo stadio si rianima. La Uefa comunica che, su richiesta del giocatore, la partita riprenderà (purtroppo la recita deve continuare). E dagli spalti i tifosi intonano, insieme, un coro bellissimo. I finlandesi urlano “Christian”, e i danesi rispondono “Eriksen”. Un momento da brividi.

Ho appena sparato a zero contro l’approccio retorico al campionato itinerante europeo di calcio per nazioni. Non vorrei cadere nell’errore uguale ma opposto. Mi sembra tuttavia il caso di prendere in seria considerazione l’accaduto di cui sopra per farsi qualche domanda.

Il tifoso, quindi, tutto sommato, è ancora capace di ragionare e di far prevalere le ragioni del cuore su quelle del fegato.  Resta inquietante il perché occorrano fatti tragici per riportare il tifoso alla ragione.

Ero un ragazzino e andavo allo stadio in compagnia di mio padre. Durante una fase particolarmente concitata di un match, in occasione di un affondo pericoloso dell’attacco parmense, un giocatore si trovò quasi a scontrarsi col portiere avversario ed in quel preciso momento scattò una frase urlata, di quelle strozzate in gola, cattive quanto assurde, che incitava, si fa per dire, l’attaccante nei confronti del portiere: “Dai, masol!”. Per fortuna il giocatore del Parma, che forse non sentì neanche l’urlo, si comportò da persona seria, desistette dall’intervenire e, come si dice in gergo, saltò il portiere. Bene così. Ma a mio padre non sfuggì quell’urlo violento proveniente da un tifoso alle nostre spalle, riuscì ad individuarlo con assoluta precisione e ad apostrofarlo con una battuta amara, una domanda retorica: “Mo ti, pr’un balón, masòt un òmm? Mo sit stuppid?” L’interessato farfugliò una risposta più assurda dell’urlo in questione, non la ricordo bene e non cerco neanche di ricordarla, perché l’unica risposta sarebbe stato il silenzio. Ed io rimasi in silenzio, ma registrai questa reazione sconfortata di mio padre e la memorizzai per quello che valeva. Con tre parole era riuscito a bollare il fenomeno della violenza in campo e sugli spalti, aveva ammonito quel tifoso con un cartellino paonazzo, più che rosso, una squalifica a vita.

Qui tutti devono fare una cura dimagrante: dei tifosi ho detto. Per i calciatori voglio aggiungere che l’impostazione professionistica della loro attività sportiva non può e non deve essere un imperativo affaristico che scavalca l’etica alla luce di un esibizionismo spinto e di un profitto eccessivo. Il malore capitato ad Eriksen è lì a dimostrare la precarietà e relatività di un mondo caratterizzato dal successo ad ogni costo. Siamo uomini o calciatori?

La cura però non riguarda solo spettatori e attori. Spostiamoci nel tempo, andiamo indietro di 40/50 anni. Non esistevano le TV a pagamento, la RAI, unica emittente, trasmetteva qualche partita, difficilmente in diretta, non c’era il rischio dell’attuale sbornia televisiva con le telecamere a scrutare ed a moviolare ad libitum, non esistevano i salotti televisivi pre e post partita, di cronista c’era Nicolò Carosio e poco più, ben lontani dalle attuali schiere di giornalisti, commentatori tecnici, esperti, moviolisti, combinati in polpettoni stomachevoli che alla fine riescono a falsare l’avvenimento (altro che i quasi goal di Carosio). Scusate se insisto, ma è l’occasione per pulirmi un po’ in bocca, per ridicolizzare quanto succede in TV durante un incontro di calcio: un gruppo di giornalisti ed esperti nello studio centrale, altri nello studiolo sul posto, un duetto per il pre-partita, un duetto per la cronaca, con altri due cronisti a commentare le inutili urla degli allenatori, una equipe per commenti e interviste durante l’intervallo ed alla fine. A parte il costo di tali sovrastrutture, che qualcuno direttamente o indirettamente paga (canone, pubblicità, pay-tv, etc. etc.) non so fino a quando, non sono sicuro che il povero telespettatore al termine ricordi il risultato dell’incontro, stordito dalla sarabanda di commenti, immagini (replay che si sovrappongono alla diretta), critiche, schemi di gioco, interviste, pareri etc. etc. Ebbene, nel periodo oggetto dei miei ricordi la culla del calcio era lo stadio, la sede naturale ed unica era il terreno di gioco circondato dalle gradinate più o meno gremite di pubblico. Calcio e stadio: il binomio entro cui si svolgeva l’avvenimento agonistico, con i due fronti contrapposti di protagonisti, i giocatori da un lato il pubblico dall’altro. Tutte le altre, a mio giudizio, sono interferenze più o meno fastidiose (dagli spot pubblicitari in giù). Ed eccoci alla cura dimagrante a livello mediatico: basta enfasi, basta retorica, basta chiacchiere inutili, basta calcio (s)parlato, basta!

Occorre lo spettro della morte di un protagonista per ridimensionare un fenomeno assurdamente gonfiato? Si è sfiorata la tragedia. Non penso sia direttamente ascrivibile a colpe, comunque servirà o sarà soltanto l’occasione per mettere momentaneamente a posto la coscienza e riprendere in fretta e furia i soliti schemi? Passata la paura, tutto tornerà come prima? Con tutto il rispetto, la comprensione e l’ammirazione per la carriera calcistica di Christian Eriksen (persona peraltro assai seria, controllata e disciplinata), non mi chiedo tanto se e quando lui potrà riprendere l’attività, mi chiedo se e quando il calcio tornerà ad essere il più bel gioco del mondo e non il più brutto caleidoscopio affaristico per molti e il più snervate sfogatoio individuale e sociale per troppi.