Parlare di giustizia umana di fronte ad una martire cristiana, che perdona le sue massacratrici, è (quasi) fuori luogo, mette un senso di inadeguatezza nel ripiombare sulla terra dopo aver contemplato uno squarcio di autentico Paradiso. Tuttavia siccome viviamo in questo squallido mondo dobbiamo occuparcene.
Faccio riferimento di seguito a quanto pubblicato dalla redazione di Catholica. Le giovanissime assassine di suor Maria Laura Mainetti sono libere da tempo. Le ragazze, tutte minorenni all’epoca, una di 16 anni, due diciassettenni hanno conosciuto il carcere ma ora sono libere. Quella tragedia del 06 giugno 2000, un folle delitto, consumato a detta delle protagoniste e in base ai riscontri giudiziari, nel nome di Satana, e mosso dalla noia, dal desiderio, diventato gesto criminale, di vivere emozioni forti. Un devastante mix confessato dalle stesse assassine, catturate tre settimane dopo il delitto. Le ragazze, tutte minorenni all’epoca, una di 16 anni, due diciassettenni, hanno conosciuto il carcere ma ora sono libere.
Da quel giorno di 21 anni fa le loro esistenze sono profondamente cambiate, a cominciare dall’identità. Hanno studiato, si sono sposate e sono diventate madri, la loro vita continua lontana da Chiavenna, in altre città e regioni. In particolare Veronica Pietrobelli, colei che chiamò suor Mainetti convincendola a scendere in strada per incontrarla, fu condannata a otto anni scontando metà della pena, così da uscire nel 2004.
Sorte simile per Milena De Giambattista, libera anche lei dopo quattro anni, che intraprese un itinerario di recupero frequentando anche la comunità di don Antonio Mazzi. Ambra Gianasso, infine, considerata la mente dell’agguato, fu condannata a 12 anni e quattro mesi. Riconosciuta parzialmente incapace di intendere e volere, dopo alcuni anni è passata al regime di semilibertà per poi lasciare definitivamente la reclusione. Nel frattempo si era iscritta all’università, facoltà di giurisprudenza.
Mia madre, così come era rigorosa ed implacabile con gli anziani, da cui pretendeva una condotta esemplare, era portata a giustificare chi delinqueva soprattutto se di giovane età, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Allora mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja. Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.
Matti o delinquenti? Indemoniati o malati mentali? Potremmo stare molto tempo a discuterne inutilmente. Certamente mio padre sarebbe stato durissimo con le giovanissime massacratrici di Chiavenna. Dando espressione colorita allo sfogo quasi unanime della gente comune, avrebbe sicuramente esclamato: “A chil ragasi lì g’al dag mi al demonio…”. Non c’è da scherzare, perché l’orrendo crimine di cui si erano macchiate gridava effettivamente vendetta, da cui peraltro ha sgombrato il campo preventivamente la vittima stessa concedendo il suo perdono.
Sono un convinto assertore del recupero dei condannati, figuriamoci se esse sono tre ragazzine squallidamente vittime di non si capisce quale follia omicida (la pista demoniaca mi lascia alquanto sconcertato e perplesso) Non lo so, ma rimane comunque un comportamento che temo possa essere riconducibile direttamente al demonio: se la vogliamo dire in senso laico, al gusto di fare il male per il male. Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!». E con esso, aggiungo io, non si può scherzare, come hanno probabilmente fatto le indemoniate di Chiavenna.
Andiamo al positivo, al recupero appunto di chi si macchia di qualsiasi reato. Colpisce, nel caso specifico (e un po’ anche in generale), la brevità del percorso riabilitativo e ancor più la sua (forse) eccessiva facilità. Dante Alighieri nella sua Divina Commedia adotta la legge del “contrappasso”. Le pene che affliggono i dannati dell’Inferno e gli espianti del Purgatorio sono assegnate in base alle colpe commesse in vita. La corrispondenza tra colpe e pene, fra peccato e punizione, è spesso regolata dalla legge del contrappasso suddivisa per analogia o per contrasto.
Non voglio arrivare a tanto, ritornare cioè alla legge del taglione, ma auspicare delle dure regole per avviare e verificare l’effettivo ravvedimento del condannato. Chi sfregia con tanta veemenza delinquenziale la vita dovrebbe impegnarsi a rimediare al male fatto col bene praticato, non dico per tutta la vita, ma nemmeno per un breve tempo. Correggerei la spietata e perbenistica espressione del “gettare via le chiavi della cella della prigione” in “gettare via un atteggiamento ed un comportamento di sbrigativa rimozione della colpa”. Non si tratta di pretendere un perpetuo senso di colpa, ma un forte, continuo e verificabile “ravvedimento operoso”.