Sì, ma qualora…

Non faccio per vantarmi, ma sono stato facile profeta. Nel commento al tragico e sconvolgente episodio della funivia del Mottarone e alle successive prime risultanze delle indagini, ho scritto, in data non sospetta, vale a dire il 28 maggio scorso, le parole, che riporto testualmente: “Ammesso e non concesso che la prima verità emergente dalle indagini della magistratura sia attendibile e non la frettolosa smania di sbattere i mostri in prima pagina (un po’ più di prudente discrezione da parte della procura interessata non avrebbe guastato) …”.

È arrivata a stretto giro e puntuale, come un triste orologio svizzero, la notizia che il Giudice per le indagini preliminari ha smentito clamorosamente la procura, non ha convalidato il fermo, ha disposto gli arresti domiciliari per il caposervizio della struttura, ha addirittura scarcerato il gestore dell’impianto e il direttore di esercizio. La pm, anziché prendere, incassare e portare a casa, ha replicato: «Non è una sconfitta sul piano investigativo, valuteremo se altri dipendenti erano consapevoli della manomissione».

Non ne faccio una questione di merito (staremo a vedere gli ulteriori sviluppi dell’indagine senza alcuna smania giustizialista e con fame di verità), ma un problema di equilibrio e prudenza nel metodo. Detta brutalmente: se i giudici facessero il loro mestiere con maggiore riservatezza stando lontano dalle ribalte mediatiche, sarebbe una buona cosa. Si ha la sensazione che la magistratura oscilli clamorosamente fra le sbrigative accelerazioni indagatorie e le penose lungaggini processuali: della serie “ti sbatto in galera, poi col tempo si vedrà se eri colpevole o meno”.

Mi limito al discorso delle esternazioni a livello mediatico. È vero che ormai bisognerà rassegnarsi a cambiare l’articolo uno della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sulle chiacchiere”, perché non c’è categoria di persone esente dal vizio di parlare troppo e a vanvera. Gli scienziati danno continuamente aria ai denti, i politici non fanno altro che parlare senza concludere un cavolo, i magistrati, che dovrebbero parlare con provvedimenti ufficiali e sentenze, cadono nella tentazione di amministrare la giustizia davanti alle telecamere più che nelle sedi giudiziarie, facendosi condizionare dalle istintive reazioni dell’opinione pubblica. Sarebbe ora di fare un salutare bagno di autonomia e sobrietà.

Non mi si dica che il tutto rientra nel rispetto del diritto all’informazione. Mi sembra che questo andazzo non faccia tanto informazione quanto confusione. Se ad una persona vuoi togliere l’appetito ingozzala di cibo…I regimi dittatoriali o autoritari risolvono il problema applicando la censura ed orchestrando la disinformazione. I sistemi democratici dovrebbero basarsi sul senso di responsabilità, soprattutto da parte di chi svolge funzioni pubbliche. Il marcio nella nostra società esiste e sarebbe da criminali nasconderlo sotto il tappeto, ma non si pulisce nemmeno spargendolo o illudendosi di concentrarlo sulle prime esperienze che vengono a tiro.

“È palese, al momento della richiesta di convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare, la totale mancanza di indizi a carico di Nerini e Perocchio che non siano mere, anche suggestive supposizioni”, si legge nell’ordinanza, che parla di un quadro indiziario già “scarno” e ancor più “indebolito” dagli interrogatori di garanzia.

Ho letto alcuni passaggi dell’ordinanza del gip, che peraltro mi è sembrata molto ben argomentata: come minimo, dei tre mostri sbattuti in prima pagina due non sarebbero dei mostri e le loro eventuali responsabilità sarebbero tutte da dimostrare e per uno sarebbe pacifica l’assenza del pericolo di fuga. Il provvedimento demolisce letteralmente la frettolosa indagine della procura arrivando a ritenere palesemente irrilevante il riferimento fatto dalla procura stessa al clamore mediatico sollevato dalla vicenda, che “non si può certo far ricadere sulla persona dell’indagato”. Forse sono in vena di autoincensazione (d’altra parte mio padre affermava sarcasticamente: «L’importansa s’a t’ spét ch’ a t’ la daga chiätor…bizoggna ch’a te tla dàgh da ti»), ma mi pare la canonica formulazione dei miei immediati e incompetenti dubbi sulla conduzione dell’indagine, condizionata dall’ansiosa ricerca di un capro espiatorio.

La procuratrice Bossi non ha recepito la lezione ed è tornata pedissequamente alla carica: “Non la vivo come una sconfitta sul piano investigativo, perché l’aspetto più importante è che il giudice abbia condiviso comunque la qualificazione giuridica dei fatti. Il fatto che in questo momento non ci siano sufficienti indizi per applicare la misura cautelare, non significa che non ce ne saranno in futuro, questo è il punto. Noi continueremo ad indagare in quel senso, perché anche da un punto di vista logico di dinamiche imprenditoriali mi pare veramente poco credibile che tutti fossero a conoscenza di queste prassi tranne il proprietario. Cercheremo altri riscontri. A breve potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati nuovi dipendenti della società che gestisce la funivia. Valuteremo in che termini sapevano dell’uso dei forchettoni e se hanno consapevolmente partecipato o se si sono limitati ad eseguire indicazioni provenienti dall’alto”.

Mi è tornato alla mente un gustoso episodio della mia vita scolastica. L’insegnante di tecnica commerciale, durante un’interrogazione, aveva proposto la soluzione di un problema fornendo una serie di dati su cui costruirla. Il mio brillante compagno di classe si applicò con impegno e diede una sua articolata e plausibile risposta. Senonché la professoressa non tardò a svelare l’equivoco: la soluzione presupponeva la conoscenza di un dato che non era disponibile. L’interrogato ci rimase male e, con una reazione a metà fra l’ingenuità e la faccia tosta, si mise sulla difensiva dicendo: “Sì, d’accordo, ma qualora avessi conosciuto quel dato…”. L’insegnante fu magnanima e non interpretò la cosa come una presa in giro e si limitò a riprendere l’allievo, evocandone ripetutamente il cognome con un tono di voce fra lo spazientito e l’ironico. Da quel giorno nella mia classe, quando si voleva sgattaiolare fuori del seminato e rispondere pero per pomo, si diceva: “Sì, ma qualora…”. Mi sembra che la procuratrice Bossi abbia risposto al gip che le faceva osservare la debolezza delle indagini con un “Sì, ma qualora ci fossero le prove…”.