Devo essere sincero: sto seguendo con una certa indifferenza le vicende in casa PD col ritorno al futuro di Enrico Letta, anche se, per (dis)onestà intellettuale, aggiungo che, tanto per (non) essere obiettivo e imparziale, Letta non mi piace. Il “fenomeno” di ritorno, al fine di impattare (in)credibilmente sull’immaginario collettivo, ha pensato bene di mettere in (s)vendita le donne PD sulla bancarella del mercato femminista mediatico.
Non ho capito se la mossa di piazzare due donne nel ruolo di capi-gruppo parlamentari del partito democratico sia dettata da una fuorviante ansia di valorizzazione femminile purchessia o, più semplicemente, dal desiderio di avere sotto controllo le pattuglie parlamentari democratiche, rafforzando una posizione di finto unanimismo e prevenendo ogni e qualsiasi tentazione di rimessa in discussione di una leadership improvvisata. “Datemi due donne e vi solleverò il PD!”.
Chiarisco il mio pensiero in ordine alla parità uomo-donna: a mio giudizio questo nodo storico-culturale non si risolve con le quote rosa calate dall’alto, spartendo cioè equamente il bottino fra maschi e femmine, ma applicando il manuale della competenza e del merito a prescindere dal sesso. Se dovessi ricoprire cinque incarichi politici, non partirei dividendo la torta in due (nel caso sarebbe oltre tutto assai difficile), ma vedendo di mettere la persona giusta al posto giusto, il che potrebbe voler dire scegliere, al limite, cinque donne o cinque uomini. Scelta quindi non di quantità, ma di qualità.
Vengo al dunque: che senso ha sacrificare sull’altare femminista l’attuale capogruppo alla Camera, quel Graziano Del Rio, che non temo di giudicare come l’uomo migliore del partito, pur di mettere al suo posto una collega donna? L’interessato, da galantuomo qual è, ha immediatamente dato la sua disponibilità a farsi da parte, dimostrando una persino eccessiva umiltà ed un esagerato spirito di servizio. È questa la valorizzazione in politica della donna o non è piuttosto il confuso rimescolamento di carte truccate?
Ma Enrico Letta gode di buona stampa, fa parte della categoria dei bravi a prescindere, un po’ come succede per Roberto Mancini commissario tecnico della nazionale di calcio. Letta è competente, preparato, moderato, equilibrato, serio, educato. Quando si piace a tutti, gatta ci cova. Ad un noto e bravo commentatore politico è stato chiesto un giudizio sulla ridiscesa in campo di Letta: secondo lui punterebbe a fare un utile partito liberale di sinistra o di sinistra liberale (come dir si voglia). Penso che abbia perfettamente ragione, probabilmente mi ha tolto la parola di bocca, infatti facevo una certa fatica a trovare il vero motivo della mia grande perplessità verso questo personaggio rientrato in pista con la superbia dell’umiltà. Troppo liberale per i miei gusti sociali, poco di sinistra per la mia irrinunciabile idealità politica. Non è né carne né pesce, anzi, come ho già scritto, è un pesce lesso che sa di poco.
Un americano a Parigi, che ritorna improvvisamente a Roma, esibendo con falsa modestia, un trolley pieno di buone intenzioni, ma sostanzialmente vuoto di prospettive politiche interessanti e innovatrici. E allora prepariamoci ad una serie di mosse fumose, manieristiche ed insignificanti, come quella sulle donne a tutti i costi. Passerà alla storia come il segretario delle donne. Personalmente – sono un incallito e incorreggibile demagogo di sinistra – preferirei un segretario dei poveri (siano donne o uomini), che però non può andar bene ai ricchi. E i voti dove li prenderebbe? Dai poveri, purtroppo in crescita esponenziale, mentre i ricchi purtroppo sono in crescita speculativa. Su Enrico Letta sono pronto a ricredermi, non a colpi sparati a salve con i cannoni mediatici, ma a colpi selettivi di strategia socio-politica.