Da ex capitale a capitale il passo è lungo

Frequentavo la quarta classe dell’istituto tecnico commerciale: in questa scuola c’era l’usanza di iscrivere in un albo d’onore (sic!) gli allievi che si distinguevano per il loro profitto. Alla fine del primo trimestre avrei avuto i requisiti per quella iscrizione (nessuna insufficienza), ma avevo un voto basso in condotta (eravamo stati nella mia classe tutti puniti per alcune marachelle) e quindi persi “l’onorificenza”, per la verità senza grosso dispiacere da parte mia. Quando l’insegnante, che nutriva grande stima nei miei confronti, mi diede con un certo rammarico questo annuncio di fronte a tutti i miei compagni di classe, non esitai ad esprimere una sostanziale indifferenza alla questione: un mio compagno, volle dire ironicamente la sua e rivolto verso di me chiese, provocatoriamente e ad alta voce affinché la professoressa potesse sentire: «Si prendono soldi ad essere iscritti nell’albo d’onore?». Lo disse in uno sguaiato dialetto parmigiano per rendere ancor più ficcante la battuta. Fu immediatamente redarguito dall’insegnante, lui si scusò e la cosa finì così.

Credo e spero che la nomina di Parma a capitale italiana della cultura per il 2020 abbia uno spessore ben più consistente rispetto all’iscrizione nell’albo di cui sopra, non solo e non tanto per i fondi messi in palio per stimolare lo sviluppo culturale. È certamente un onore per la nostra città avere ottenuto questo riconoscimento a livello ministeriale su indicazione di una autorevole giuria, che ha valutato positivamente i progetti  presentati per lo scopo dal “sistema Parma”. A proposito di onore può essere opportuno citare testualmente la famosa aria del Falstaff di Giuseppe Verdi presa dal libretto di Arrigo Boito, nel suo forte senso dissacrante: «Può l’onore riempirvi la pancia? No. Può l’onore rimettervi uno stinco? Non può. Né un piede? No. Né un dito? No. Né un capello? No. L’onor non è chirurgo. Che è dunque? Una parola. Che c’è in questa parola? C’è dell’aria che vola. Bel costrutto. L’onore lo può sentir chi è morto? No. Vive sol coi vivi? Neppure. Perché a torto lo gonfian le lusinghe, lo corrompe l’orgoglio, l’ammorban le calunnie. E per me non ne voglio, no!».

Non annettiamo quindi a questo riconoscimento una forza d’urto che non ha, né un significato eccessivo, né un assurdo effetto miracolistico. Non facciamone l’occasione per continuare a vivere di ricordi, ma lo spunto per guardare avanti e concretizzare i progetti togliendoli dalla cartolarità. Qualcosa forse si sta muovendo? È presto per dirlo e sempre tardi per metterlo in atto.

Non voglio fare il disfattista, ma sono convinto che questo riconoscimento prescinda dai vizi e dalle virtù delle amministrazioni comunali succedutesi e dalle qualità, peraltro piuttosto scarse, della classe dirigente parmigiana considerata nel suo complesso. Forse tutto viene dalla sedimentazione dell’humus culturale che da sempre ci caratterizza e ci distingue. Siamo un po’ tutti protagonisti e vittime di questo fascinoso alone che ci “perseguita”.

Riporto ancora l’aria di Fastaff, il quale si rivolge ai suoi aiutanti, che si trincerano dietro l’onore per non prestarsi ai suoi giochetti: «Ma, per tornare a voi, furfanti, ho atteso troppo, e vi discaccio. Olà! Lesti! Al galoppo! Il capestro assai bene vi sta. Ladri! Via di qua!». Il ministro Dario Franceschini non avrà certo detto parole così dure al sindaco Pizzarotti investendo Parma del titolo prospettico di capitale della cultura, anche se, come parmigiani, ce le meriteremmo, seduti da troppo tempo sul comodo divano della nostra ex capitale.