Durezza della politica e tenerezza del cuore

Ho seguito, seppure parzialmente, la pacata e scialba intervista a Silvio Berlusconi di Bianca Berlinguer durante la trasmissione in onda su Rai3, che si intitola “Carta bianca”, giocando appunto sul nome della conduttrice.  Ho prestato scarsa attenzione ai contenuti del discorso emergente dalle parole del leader di Forza Italia, peraltro politicamente scontati, deboli e contraddittori.
Mi sono lasciato invece guidare da sensazioni di carattere umano: mi sentivo davanti ad un uomo pateticamente ma testardamente egocentrico, che non aveva più nulla da dire ma continuava a pontificare, che insisteva a tirare fuori dal cilindro conigli inesistenti, che ostentava ridicoli legami a livello europeo dopo essere stato sepolto in quella sede alcuni anni oro sono con una risatina, che si dava arie da statista citando Alcide De Gasperi a cui assomiglia sì e no nel “pisciare”, un uomo ridotto alla vignetta di se stesso.
Devo dire la verità: mi sono lasciato impietosire dall’uomo vecchio, sostanzialmente solo, incapace di abbandonare il campo in modo dignitoso. Qualcuno avrebbe potuto dirgli con un po’ di cattiveria “va’ al canäl”, espressione parmigianissima utilizzata per mandare qualcuno a quel paese in cui si fanno appunto cose inutili ed assurde, come durante l’occupazione nazista. In quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la suddetta pesantissima espressione: “va’ al canäl”. Con la differenza che Berlusconi non è mai stato un grande tenore della politica, ma semmai un corista che stonava e cantava fuori dal coro.
Un tempo con l’inquietante uomo di Arcore mi innervosivo, ora non più, prevale in me un senso di pietoso compatimento e, come sempre mi succede, quando vedo un grande o, nel caso berlusconiano, un sedicente grande, cadere in basso, non riesco ad infierire neppure mentalmente e, tanto meno, verbalmente. Anche la politica deve trovare un limite nella tenerezza del cuore.

Ho recentemente riscoperto come Pietro Nenni l’indomani della brutale esecuzione di Benito Mussolini fosse profondamente turbato e commosso, pur avendo dettato il forte titolo di “giustizia è fatta” per il giornale di partito “Avanti”, anche perché ne era stato amico, politicamente e umanamente, almeno fino al 1919: erano infatti due spiriti rivoluzionari, incarcerati per avere sobillato le folle contro la guerra in Libia, interessati dalle teorie sorelliane. Poi i due destini politici si separarono nettamente e drammaticamente, salvo ritrovarsi, per opposti motivi, confinati all’isola di Ponza nel 1943.  Ebbene sembra che Nenni abbia addirittura speso una pietosa parola di commento: “povrén” disse tra sé, in dialetto romagnolo, dopo l’esposizione del corpo in piazzale Loreto. Qualcuno strumentalizzò questo antico legame amichevole con Mussolini e magari si scandalizzò per questo inghippo sentimentale. Io, al contrario, mi sono commosso. In politica bisogna saper dare l’onore delle armi a chi non lo merita, lasciando parlare il cuore anche nei momenti più impensati e più inopportuni. Anch’io, abbandonando la visione dell’intervista a Berlusconi, con un tantino di presunzione e superbia, lo ammetto, ho detto tra me e me una parola sola: povrètt. Da estendere a quanti avranno l’ardire di votarlo o rivotarlo.