Le olimpiadi del finto disgelo

Ripercorrendo in modo pressapochistico, per non dire spannometrico, la storia delle Olimpiadi, si fa molta fatica a capire fino a qual punto la più grande e importante manifestazione sportiva abbia influenzato la politica o sia stata condizionata e strumentalizzata dalla stessa.

In premessa bisogna precisare che di sportivo in senso classico e di spirito olimpico vero e proprio rimane ben poco: il dilagante e inarrestabile professionismo degli atleti, l’affarismo indotto dagli inevitabili interessi economici esistenti a livello di allestimento e gestione di questo enorme evento, la spinta mediatizzazione delle gare seguite con un’attenzione che va ben al di là dello sport, la spettacolarizzazione che ha soppiantato completamente l’agonismo partecipativo a vantaggio della ricerca della vittoria a tutti i costi (leggi doping e fenomeni annessi e connessi) hanno comportato un notevole snaturamento delle Olimpiadi al punto che certi Paesi (tra cui purtroppo anche l’Italia) preferiscono non offrire ospitalità a questo evento, ritenendolo fonte di inutili spese e di pericolosa corruzione.

Fatta questa doverosa premessa ritorno al dunque: al rapporto fra sport e politica. Dirò subito che non sono entusiasta dei venti di pace che sembrano partire dalle olimpiadi invernali coreane. Sempre meglio di una loro coniugazione in chiave squisitamente nazionalistica.

Tuttavia si tratta di un disgelo calato dall’alto, del mero sfruttamento di un occasione unica per riallacciare rapporti diplomatici e individuare qualche spiraglio di dialogo internazionale fra le due Coree, ma anche tra i loro referenti più o meno diretti.

Non è una spinta che sale dal basso, dalla rispolverata fratellanza tra atleti e sportivi delle più diverse nazionalità, etnie, razze e lingue: questi rischiano di ricoprire il ruolo di pedine sullo scacchiere politico internazionale seppure in senso pacificatorio. Spero che le olimpiadi coreane possano passare alla storia come l’inizio di un processo di pace in Asia e nel mondo intero, ma ciò e avverrà non sarà per la loro forza d’urto bensì per il loro facile palcoscenico.

Allora la distensione che ne potrà sortire non sarà forte e radicata, ma soltanto tattica e provvisoria, una sorta di armistizio fra Stati e non un ritrovato dialogo fra popoli: forse esigo troppo, ma temo che da uno sport, che non è più tale, possa derivare solo una pace che non è degna di tale nome.

Mio padre credeva molto nel significato e nella portata degli eventi sportivi, soprattutto delle olimpiadi al punto da scandire la propria esistenza sulla quadriennale ripetitività dell’appuntamento olimpico. Al termine di un’olimpiade chiedeva a se stesso: «Ci sarò alle prossime? Le potrò seguire e vivere come si deve?». Era più interessato ad essere presente alle olimpiadi che non al momento in cui l’uomo sbarcò sulla luna o sbarcherà su Marte. Un atto di fede nella natura umana e nelle sue inesauribili risorse a servizio della pace e dello sviluppo.

Assai curiosi erano i pulpiti da cui mio padre impartiva le sue lezioni di vita: i più improbabili, i più strani ma forse i più credibili. “Da che pulpito viene la predica” si è soliti dire per screditare l’imbonitore di turno.   Nel mio caso, o meglio nel caso di mio padre, il pulpito, per la sua immediatezza di postura e per la sua semplicità di struttura, conferiva credibilità proprio perché incastrato nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità più assoluta, garantendo l’enfasi del vissuto e l’autorevolezza dell’esperienza diretta. Il pulpito più spontaneamente praticato era lo stadio, quale sede fisica dell’evento sportivo, per meglio dire lo sport quale positiva e accattivante metafora della vita a livello individuale e sociale, quale capacità di coniugare competizione e rispetto reciproco, quale viatico per un’esistenza vivace ma pacifica.