Non ricordo quale sia il personaggio storico che affermava come la democrazia inizi dal giorno successivo alle elezioni. Teoria provocatoriamente interessante e condivisibile: non è infatti con un voto, seppure liberamente e responsabilmente espresso, che si esaurisce la prassi democratica di un Paese. Altrettanto vero, tuttavia, è che senza il voto non c’è democrazia e che quindi l’esercizio del diritto di voto non deve essere visto come la partecipazione ad un rito vuoto ed insignificante. Se il bello della democrazia viene dopo il voto, mi sembra di poter aggiungere altresì che la partita democratica comincia prima del voto, con la campagna elettorale.
Purtroppo invece si dice “siamo in campagna elettorale” per lasciare intendere che si sta celebrando il funerale della democrazia a suon di parole in libertà, di promesse a vanvera, di argomenti strumentali, di polemiche assurde, di fandonie a go-go. Quando si vuole richiamare alla serietà un politico, gli si dice infatti che la campagna elettorale è finita. Se si vuole svaccare un argomento lo si definisce tout court un tema da campagna elettorale.
Siamo d’accordo che il passare dai programmi alla loro esecuzione è un salto notevole: “dal dire al fare c’è di mezzo il mare” è un detto che vale anche in politica. Di qui a considerare il dibattito pre-elettorale come una farsesca rappresentazione teatrale ci passa una certa differenza. Siamo ormai abituati a vivere la politica come una intrusione fantasiosa rispetto alla realtà dei fatti, a considerare la scheda elettorale alla stregua della schedina del totocalcio.
Stiamo ben attenti a non ridicolizzare il gioco democratico relegandolo su un finto palcoscenico a cui si può tranquillamente voltare le spalle. Da una parte ci sentiamo sempre in campagna elettorale: non appena visti i risultati di una consultazione pensiamo immediatamente a quella successiva, immaginandola anticipata rispetto alla naturale scadenza, quasi a voler auspicare una precarietà liberante e continua. Dall’altra parte ne siamo infastiditi e tendiamo a viverla con estrema sufficienza: snobbiamo le elezioni. Non è un caso se l’astensionismo aumenta, se la sfiducia serpeggia nella gente, se la protesta si fa globale e anti-sistema, se si parla con insistenza di anti-politica, se trionfano i populismi.
Abbiamo perso il senso della storia, abbiamo dimenticato il prezzo enorme pagato per la conquista della libertà e della democrazia, facciamo gli schizzinosi, irridiamo a chi continua a militare nei partiti politici, a chi si impegna assumendo cariche pubbliche, a chi discute seriamente e costruttivamente, ci vantiamo di essere diventati qualunquisti.
Ricordo di avere ascoltato le giuste rimostranze di un amico, che, di fronte ai fenomeni della corruzione e dell’affarismo infestanti la politica, si chiedeva: “È più qualunquista la gente che è stanca di questo andazzo oppure qualunquisti sono coloro che sporcano la politica facendo i loro interessi?”. Sono perfettamente d’accordo. Ma la rassegnazione, così come la generalizzazione, non aiuta.
Durante il lungo conclave per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXIII, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc….): “Ti ch’a te t’ intend s’ in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “. Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferi’ rispondere alla sua maniera e la buttò clamorosamente in politica: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta!“.