Durante la mia bella e stimolante esperienza di componente della commissione teatrale del Regio di Parma, un autorevole e titolato collega mi metteva in crisi con la sua professionalità e mi stupiva per il distacco con cui viveva gli eventi musicali: con i suoi atteggiamenti sembrava sempre ribadire la superiorità della musica nella sua assolutezza artistica rispetto alla relatività delle pur apprezzabili esecuzioni sinfoniche e operistiche.
Sul più bello di infuocate riunioni o di interessanti rappresentazioni, si alzava in piedi, si vestiva di tutto punto (cappello compreso) e sorprendeva tutti con un lapidario “Adésa vag a ca…”. Una volta a richiesta spiegò come il motivo fosse il suo impegno antelucano di studio che gli imponeva di addormentarsi presto per essere appunto in grado di affrontare questo giornaliero preludio alla sua normale attività professionale in campo musicale. Non c’era verso di trattenerlo. Lo ammiravo per questa sua dedizione alla musica vera mentre io mi “distraevo” con la musica in teatro. Nei suoi gesti e nelle sue scelte non c’era niente di presuntuoso o di polemico, non intendeva prendeva le distanze dalle scelte operate dalla commissione ai cui lavori partecipava sempre, né pensava di snobbare gli spettacoli del Regio a cui non mancava mai: si teneva solo questo spazio di autonomia, quasi un ticket da pagare a chi la musica la componeva, rispetto a chi la eseguiva.
Mi è venuto spontaneo fare uno strano parallelismo tra l’autentico purismo di questo musicista e il purismo tattico di certi politici di sinistra, che nei momenti topici del dibattito e dello scontro si alzano in piedi e se ne vanno sbattendo la porta e gridando “Vag a fär un partì”. Il mattino dopo non si alzano presto per studiare, ma brigano per attaccare il gruppo a cui appartengono e per costituirne uno nuovo. Mentre in passato queste storiche frizioni e frazioni della sinistra erano giustificate da questioni ideologiche (massimalismo-riformismo; oriente-occidente; governo-opposizione) oggi sono caratterizzate da calcoli contingenti e strumentali (job’s act sì o no; Renzi sì o no; coalizioni sì o no). Quando uno non è d’accordo si alza, se ne va e fa un nuovo partito: i motivi e una manciata di voti si trovano sempre.
Poi magari di partitini ne fanno tre o quattro, si mettono a litigare fra di loro, dividono e disorientano l’elettorato di sinistra, fanno vincere la destra, ma il loro onore è salvo. Se durante la Resistenza al fascismo e all’indomani della caduta del regime i politici di sinistra fossero stati altrettanto radicali, avremmo ancora la monarchia e la Costituzione sarebbe di là da venire.
La politica è l’arte del compromesso ai più alti livelli possibili e non quella di segnare il proprio territorio come fanno i gatti. Superato definitivamente il bivio vocazionale sinistra di lotta-sinistra di governo, bisogna discutere di contenuti in un partito largo, plurale, aperto e innovativo, senza incaponirsi in questioni identitarie farlocche e senza difendere burocraticamente il passato che non torna più. Nella bagarre dalemian-bersanian-pisapiana vedo questo arroccamento sentimentaloide a parole, di potere nei fatti, che di politico ha ben poco. Il partito democratico è contendibile dall’interno e non sputtanabile dall’esterno. Renzi non sarà quel carismatico leader che occorrerebbe, ma nemmeno un disertore o un traditore. La linea politica può essere ampiamente discussa e migliorata. La classe dirigente può essere tranquillamente riverificata e aggiornata. Tutto ciò non autorizza nessuno ad alzarsi in piedi, a vestirsi di tutto punto (cappello compreso) e a gridare “Adésa vag a ca…”. Anche perché questi signori non vanno mai a casa e vogliono solo mandarci gli altri.