La questione delle Organizzazioni non governative impegnate nel soccorso ai naufraghi si sta facendo molto seria e profonda. La volontà di imbrigliarle, l’accanimento inquisitorio nei loro confronti, il subdolo tentativo di generalizzarne gli eventuali errori sono fatti inquietanti oltre che sintomo di grave interferenza, che non mi sento di circoscrivere ai modi di affrontare l’emergenza migranti. Non penso sia solo un problema su come meglio combattere gli scafisti. Non credo nemmeno sia una faccenda dei rapporti tra Stati europei ed UE, tra UE e Paesi africani, tra Paesi africani e mondo occidentale. È tutto questo, ma è qualcosa che viene prima di tutto ciò e va oltre ciò: siamo alla cultura del rapporto aperto e costruttivo dell’individuo e le sue libere associazioni con lo Stato. Si tratta di un vero e proprio oscurantista soffocamento della democrazia tramite un distorto e burocratico concetto di legalità.
L’emergenza migranti scopre il nervo della mano pubblica incapace, a monte e a valle, di affrontare le più drammatiche e spinose situazioni sociali, ma nello stesso tempo velleitariamente e presuntuosamente portata a dettare le strette regole a cui devono attenersi i soggetti privati disposti a offrire e ad aprire la loro consistente mano. Emerge una sorta di prevenuta chiusura dei tradizionali organi dello Stato verso chi opera, è proprio il caso di dirlo, in mare aperto: tutti col fucile spianato a cercare le mani sporche di chi è disposto a sporcarsele; tutti a giudicare e squalificare chi non può formalizzarsi; il discorso migranti è diventato un processo alle ong ed ai loro comportamenti, ma anche e soprattutto ad un modo aperto e solidale di impostare e vivere la società.
Da una parte tutto diventa pretesto per far naufragare assieme ai migranti la cultura dell’accoglienza, riducendola magari alla opzione illusoria del buonismo a tutti i costi: non ci sta, non fosse altro perché le critiche piovono non tanto su chi fa chiacchiere da salotto buono, ma su chi si butta nella mischia e si impegna concretamente.
Da un’altra parte è sempre in agguato la mentalità di chi ritiene monopolio assoluto dello Stato (non) affrontare e risolvere le questioni più delicate e complicate: della serie “ma chi ve lo fa fare, ci pensi lo Stato”. È la teorica anticamera alla triste concretezza dell’egoismo individuale e al penoso tran tran burocratico.
Da un’altra parte ancora vi è chi vuol segnare a tutti i costi il primato dello Stato, che copre i propri limiti imponendone di assurdi, o quantomeno esagerati, agli altri soggetti disposti a scendere in mare.
Fatto sta che è in atto un paradossale giro di vite su un mondo che volontariamente e liberamente opera in situazioni di incredibile difficoltà e disagio: si sta usando la lente di ingrandimento per sputtanare le ong e si sorvola su tutto il resto; affiora sempre più una stanchezza etica che trova riscontro in questa intransigenza pelosa e strumentale.
Il passaggio è molto delicato sul piano culturale oltre che politico: se passa la concezione di una società schematicamente allineata e coperta, è la fine! Non è tanto e non solo questione di destra e sinistra, qui si gioca il modo di essere della società stessa, la sua apertura ai bisogni ed alle soluzioni. Giorno dopo giorno si abbassa la saracinesca: i sindaci per difendere le loro comunità, i magistrati per difendere la scrupolosa osservanza della legge, i politici per raccogliere consensi, le istituzioni per salvare la faccia, i razionalisti per regolare i flussi, i garantisti per sbaragliare gli scafisti, i razzisti per salvaguardare la nostra (in)civiltà, i realisti per sminuire, sfrondare e allontanare la disperazione che ci interpella.
Sarebbe una tragedia se passasse l’idea del perfezionismo del nulla fare, della pace dei sepolcri, dell’ordine nel disordine, del si salvi chi può: vincerebbe la regola che viene prima del bisogno, il sabato che viene prima dell’uomo, il distinguo prima della tragedia.