Negli Usa di Donald Trump abbiamo una girandola di nomine, dimissioni, sostituzioni in cui non ci si raccapezza più (probabilmente non ci si raccapezza più nemmeno Trump). Ormai non passa giorno senza che un alto dirigente della Casa Bianca venga sfrattato e sostituito in fretta e furia. Il presidente americano va probabilmente per tentativi e, al di là del pesante condizionamento delle inchieste di cui è oggetto (direttamente o indirettamente), brancola nel buio delle sue assurde promesse elettorali e sta portando alla deriva tutto l’Occidente pur di sopravvivere sul mare agitato della sua (non) politica. Siamo in una situazione di precarietà nei rapporti internazionali, in cui quel che vale oggi verrà messo in discussione domani e non varrà niente dopodomani: incertezza, confusione, incoerenza e improvvisazione.
Se scendiamo di livello, pur restando tuttavia nel variegato mondo degli anti-sistema, arriviamo a Roma: se Donald Trump è un ballerino (il Bolle della politica internazionale), Virginia Raggi è la “Carla Fracci” della politica italiana. Le sue piroette, i suoi cambi di passo, i suoi volteggi non finiscono di stupire. Anche in Campidoglio, con la giunta grillina, si è scatenata una girandola di nomine al di sotto della quale la città rischia di affogare: ho perso il conto, anzi ormai mi rifiuto di tenere dietro ai giornalieri ribaltoni assessoriali, funzionariali e manageriali. Se la Casa Bianca è nel caos, il Campidoglio è nel casino totale. La precarietà domina, non si capisce chi decide, chi comanda, chi amministra. Forse è un modo come un altro per andare incontro alle esigenze della gente: farle credere che nel trambusto generale qualcosa finalmente cambierà. A giudicare dai sondaggi, per il momento, sembra che la ricetta funzioni.
In politica insomma vince la precarietà e in troppi si illudono che possa servire a generare novità. Poi cominciamo a lamentarci perché a livello occupazionale domina il lavoro precario. Siamo belli come il sole: pretendiamo che le aziende, invischiate nella precarietà di una crisi su cui si sta solo galleggiando, condizionate da una politica che non offre strategie di sviluppo ma solo confuse tattiche di resistenza, investano e assumano personale a tempo indeterminato. Pretese irrazionali.
Intanto non facciamo nemmeno una piega di fronte alla precarietà dello sfruttamento a livello schiavistico nelle campagne, laddove le braccianti italiane si confondono con i richiedenti asilo: le une e gli altri vengono remunerati in nero con pochi euro per raccogliere la frutta e magari accatastati in dormitori simili a gironi infernali. Di fronte all’esigenza di governare i flussi migratori, con equilibrio e senza cadere nelle retoriche da strapazzo, non riusciamo a saltarci fuori, tra spinte e contro-spinte, tra Paesi che guardano più alle urne che ai barconi, tra litigi sui soccorsi e tra i soccorritori, tra contraddizioni enormi a livello di Europa, tra forze politiche attente a spillare qualche decimale in più nei loro ipotetici consensi. Qui la precarietà diventa dramma umano, demografico e sociale.
Tutto è precarietà. Non vogliamo la globalizzazione, perché pensiamo di risolvere meglio i problemi in casa nostra, laddove regna il caos. Non ci fidiamo nemmeno dei vaccini perché dietro avrebbero colossali interessi delle case farmaceutiche: sappiamo solo dire no, a tutto e il contrario di tutto. Non capiamo che questo è semmai il modo migliore per lasciare tutto com’è, per cambiare a parole, per sbagliare la mira e colpire solo nel mucchio. Critichiamo il “sessantotto”: ma al confronto era una battaglia creativa e propositiva.
In compenso vorremmo stabilità di lavoro, di benessere, di condizione sociale, ma ad un tempo esigiamo una rivoluzione sistemica, una messa in discussione delle élite e dell’establishment. Non è per caso che vogliamo la quiete prima della tempesta, la botte piena e la moglie ubriaca? Forse stiamo puntando alla moglie piena (di problemi) e alla botte vuota (di soluzioni). Più precari di così…