Di fronte all’evidente sciagura dell’elezione di Trump, emergente dalle sue prime mosse strategiche e tattiche e condizionata dall’aria di impeachment che spira intorno alla Casa Bianca, i suoi imbarazzati difensori, americani e non, si nascondono dietro due luoghi comuni: Trump ha vinto perché era ed è contro l’establishment; Trump, a livello internazionale, non sta facendo niente di molto diverso rispetto a Obama.
Il discorso dell’establishment sta diventando l’alibi dietro cui si nascondono tutte le più assurde, inconsistenti e insensate proteste populiste: l’importante è riuscire a bucare il video dell’antipolitica, dopo di che tutto va ben e tutto fa brodo. Persino i vaccini vengono ascritti al sistema di potere e quindi devono rimanere opzionali. Il marxismo riportava tutti i problemi al conflitto di potere nei rapporti economici, l’attuale populismo li riporta allo generica battaglia contro lo strapotere delle classi dirigenti. Pura ideologia, che nel primo caso aveva presupposti scientifici, nel secondo ha solo fondamenti mediatici e psicologici.
Non ha importanza se Trump è stracarico di conflitti di interesse, se sta difendendo precisi interessi petroliferi, se pesca nel torbido del marasma economico-sociale americano e mondiale, se dimostra la più totale incompetenza e impreparazione, se si muove nell’incoerenza fatta sistema, se recita a soggetto di fronte ai problemi più delicati e complessi. È il simbolo dell’anti establishment (che tra l’altro nessuno spiega bene cosa sia) e questo basta anche ai trumpiani o trumpisti di casa nostra.
L’altro luogo comune è la presunta sostanziale continuità rispetto a Barak Obama. Durante le recenti visite in Arabia Saudita e in Israele ha letteralmente capovolto la strategia obamiana volta all’evoluzione democratica nei Paesi arabi, alle aperture verso l’Iran, all’appoggio critico verso Israele. Si passa con incredibile superficialità dal Trump innovatore ante litteram al Trump pedissequo continuatore. Quando fa e dice certe cose è un sano riformatore, quando fa e dice altre robe (da matto) è in linea col passato.
Dietro Trump ho l’impressione che si celi tutta la contraddizione della politica attuale: l’ansia di corrispondere a tutte le paure, magari appositamente create o enfatizzate, per mettere sostanzialmente a repentaglio le fondamenta del sistema democratico. Provate a leggere in questa chiave le mosse di Trump e vi ci ritroverete. Manco a farlo apposta è entrato alla Casa Bianca con un blitz anti-democratico (come interpretare diversamente la sua elezione con milioni di voti in meno rispetto alla Clinton).
Non so se questa sbornia durerà e fino a quando potrà durare. Non ho grande fiducia negli impeachment: nel clima attuale rischiano di essere veri e propri boomerang. Non nutro grande considerazione nella capacità reattiva della società civile americana: è così confusa, contraddittori ed articolata… Non mi illuderei più di tanto rispetto agli attacchi della stampa e dei media: esagerano e gli offrono l’arma del vittimismo. Non concedo credito agli esperti ed ai commentatori che lo prevedono in rapida e obbligata conversione alla realpolitik: non ha infatti il senso della realtà perché vive in un mondo virtuale connotato ai suoi deliri di onnipotenza; non ha senso politico in quanto affronta tutte le situazioni, anche le più ingarbugliate, con piglio teatralmente decisionistico, estremizzando la scelta tra male e bene, che purtroppo non stanno mai da una sola parte.
Più osservo il comportamento, anche esteriore, di Donald Trump e più mi viene spontaneo il parallelismo con Silvio Berlusconi. Indro Montanelli, in riferimento al berlusconismo, sosteneva si trattasse di una brutta malattia, che doveva fare il suo corso per consentire la creazione degli anticorpi. Aveva perfettamente ragione: non ne siamo ancora perfettamente guariti. Se tanto mi dà tanto, abbiamo davanti una lungo-degenza da morbo di Trump, da cui non so come usciremo. Io, molto probabilmente, non farò in tempo ad uscirne. Auguri a chi può sperare in meglio, almeno per motivi anagrafici.