Un giocatore di colore del Pescara, Sulley Muntari, stanco di ascoltare le intemperanze razziste dei tifosi cagliaritani nei suoi confronti, chiede all’arbitro di intervenire come da regolamento a difesa della dignità dei giocatori e nel rispetto dei principi etici che il mondo del calcio vorrebbe adottare.
Lo fa in modo (giustamente) vivace, anche perché il direttore di gara fa finta di non sentire. Come risposta, viene invitato a non dialogare col pubblico, redarguito verbalmente e ammonito ufficialmente. Non accetta il provvedimento ed esce dal campo per protesta.
L’arbitro fa una pessima figura, come uomo, come professionista, come responsabile di quanto avviene sul campo: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. A mio giudizio ci sarebbe da arrossire di vergogna, di più, da sprofondare.
Qui infatti c’è in ballo qualcosa di molto più importante di un calcio rigore, di un fuori gioco, di un’entrata a gamba tesa. Per il quieto vivere, per non sollevare questioni delicate, per difendere lo status quo negli omertosi rapporti tra società calcistiche e tifoserie, meglio far finta di niente.
Anche i media, la maggioranza dei giornalisti sportivi, perfino i dirigenti del Pescara, minimizzano l’accaduto: quel Muntari è una testa calda, qualche coretto razzista non è la fine del mondo, il mondo del calcio è sano, i tifosi esagerano, ma non criminalizziamoli troppo. Mangiano tutti nella stessa greppia e guai a disturbare le varie combinazioni. Solo Zeman, allenatore della squadra, un galantuomo storico, ha il coraggio di dire educatamente che l’arbitro ha sbagliato e non ha avuto il coraggio di intervenire. Che pena!
Quando, da bambino o ragazzino, frequentavo lo stadio assieme a mio padre anche gli arbitri erano un po’ meno divi, erano dilettanti più o meno allo sbaraglio, sbagliavano forse più di quelli di oggi, ma erano sicuramente più in buona fede.
Ricordo un episodio molto bello: l’arbitro Angelini (spero di non sbagliare il nome) assegnò una punizione a favore del Parma ignorando clamorosamente la regola del vantaggio. Fu investito da una salve di fischi, ma ne uscì alla grande: chiese scusa al pubblico con ampi gesti, allargando ripetutamente le braccia. Il pubblico capì, apprezzò ed applaudì fragorosamente.
Ebbene, mio padre dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un protagonista necessario ma ininfluente, un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come le grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto in divisa. Può fare quel che vuole e meno male che è così, altrimenti sarebbe una bolgia. Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”.
Sono sicuro che però non avrebbe risparmiato feroci critiche al signor Minelli, l’arbitro di Cagliari-Pescara. Avrebbe detto: «An ghé miga ‘d bàli, al doväva sospéndor la partìda!».
Tutto sommato mi innervosisce e mi disturba più l’opportunistico atteggiamento arbitrale che l’inqualificabile comportamento del pubblico cagliaritano. La mancanza di coraggio è peggio dell’ignoranza, anche della cattiveria.