Qualcuno sostiene che, paradossalmente, coloro che deprecano papa Francesco lo danneggiano quanto coloro che lo esaltano acriticamente. Non faccio parte sicuramente della prima categoria, ma non voglio nemmeno rientrare nella seconda, cioè di quanti personalizzano la riforma della Chiesa, attendendola miracolisticamente e improvvisamente in tutto e per tutto dal Papa, pensando che possa smuovere le montagne della conservazione senza il coinvolgimento metodico di vescovi, sacerdoti, religiosi e laici.
Tuttavia in questi giorni mi viene spontaneo rivolgergli una critica, evidenziare una contraddizione. Ho assistito televisivamente alle liturgie pasquali, che si sono svolte a Roma in San Pietro, dalla messa Crismale, alla celebrazione della Passione, alla Veglia, alla Messa nella Risurrezione.
Il sacro triduo pasquale si è però aperto il Giovedì Santo con la Messa in Coena Domini, celebrata dal Papa tra i detenuti del carcere laziale di Palliano, in provincia di Frosinone, durante la quale Francesco ha lavato i piedi a dodici reclusi, tra cui tre donne, due ergastolani e un musulmano, rivolgendo ai carcerati parole toccanti in un clima affettuoso e famigliare. Giustamente le telecamere non sono state ammesse proprio per non rovinare l’atmosfera ed anche l’omelia non si è potuta mediaticamente ascoltare e nemmeno la si è letta nel testo integrale ma la si è intuita dalle sintesi riportate piuttosto sbrigativamente dai giornali. Sono trapelate, tuttavia e indirettamente, l’intensità e l’autenticità di quella liturgia, calata nella realtà di una casa di pena: il dramma di Cristo inserito pienamente nel dramma umano. La lavanda dei piedi è stata pienamente riscattata dal folclore rituale per diventare segno efficace di comunione con chi soffre realmente.
Questa esperienza di “carnale” partecipazione liturgica è rimasta però un lieve e isolato preludio, una mera parentesi tra i riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro, con tutta la loro pesante e ingessante spettacolarizzazione. Tornati precipitosamente e aristocraticamente in basilica, si ha la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli: tutto accuratamente predisposto, perfettamente eseguito, professionalmente interpretato, cerimoniosamente (non) vissuto.
Persino l’impareggiabile e densa sciorinata del predicatore pontificio assume i toni della “sviolinata” al sovrano attento e compiaciuto. Anche la Via Crucis al Colosseo finisce col soffrire questa impostazione, austera sì, ma fiacca nei gesti, bella, stimolante ma intellettualoide nei testi.
Dove voglio arrivare? Eccomi! Ho l’ardire di rivolgermi provocatoriamente al Papa: «A quando una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento papale a uomo? A quando un uso più contenuto della musica sacra che tanto vale e piace? Sembra di assistere ad un concerto di musica sacra inframmezzato da qualche azione teatrale o viceversa. L’arte e la musica dovrebbero essere al servizio della liturgia e non il contrario. A quando una scenografia più sobria ed essenziale? A quando un minimo di partecipazione del popolo di Dio? Si va ad assistere ad uno spettacolo o si partecipa ad un evento salvifico? Le parole delle omelie papali, sempre così palpitanti, rischiano di perdersi nell’atmosfera artificiosa e rarefatta in cui il pontefice ritorna ad essere un “re” (cattedra di un padre ascoltato dai figli o trono di un re ossequiato dai sudditi?) attorno a cui si svolge una mastodontica parata. Parata o parodia?».
Non insisto. Ho avuto però l’impressione che la “liturgia carceraria” sia stata sommersa e sciolta dalla “liturgia teatrale”. Credo che l’Eucaristia fosse molto più a suo agio, molto più libera, bella e sanguigna in carcere, tra gli ultimi che saranno i primi, che non in basilica, imprigionata nei riti anemici, asettici e pomposi, tra i primi che saranno gli ultimi.