Il nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte, ha rilasciato immediatamente dopo la nomina un’intervista. Mi aspettavo affrontasse innanzitutto e soprattutto i problemi inerenti il funzionamento della giustizia, invece, forse fuorviato dall’intervistatrice (Liana Milella de la Repubblica), forse spinto dai forti richiami all’attualità, ha puntato sul rapporto tra politica e magistratura o meglio sulla possibilità dei giudici di accedere alle cariche politiche (andata) e sulle condizioni per poter rientrare dopo aver fatto politica (ritorno).
Sinceramente non capisco questa smania dei giudici ad impegnarsi direttamente in politica: la loro funzione e la loro carriera, checché se ne dica, li mettono in una condizione difficile rispetto alla politica attiva. Vale anche per un magistrato il diritto costituzionale all’elettorato passivo, ma occorre rendere tale diritto compatibile con la separazione dei poteri e con l’autonomia di giudizio da garantire ai cittadini.
Il viavai tra procure della repubblica, aule giudiziarie e aule parlamentari non mi convince. Ho un concetto molto alto di magistrato, lo colloco al di sopra delle parti e quindi desidererei fosse totalmente ed inequivocabilmente distaccato rispetto alle vicende politiche, che invece sono di parte, anche se non necessariamente di partito.
Mettiamo pure vincoli e condizioni sia all’ingresso che all’uscita, ma rimarrà pur sempre il dubbio che le due esperienze possano intersecarsi e condizionarsi a vicenda. La Corte di Strasburgo, alcuni anni fa, ricorda Albamonte, ha detto che il pregresso incarico parlamentare non costituisce causa di ricusazione e non crea di per sé un pregiudizio di parzialità sulla decisione presa dal giudice, dal momento che la sua terzietà può essere valutata leggendo le motivazioni della sentenza. Certo, ma per arrivare a sentenza c’è un processo e anche durante questo bisogna che il giudice sia terzo, e che la sua terzietà sia trasparente fin dall’inizio, non solo quindi dimostrabile a posteriori, ma indiscutibile a priori.
I paletti di legge serviranno, ma resto del parere che serva soprattutto una deontologia professionale rassicurante: i giudici prima di sentirsi intoccabili devono dimostrare di esserlo, prima di pensare ai propri diritti si preoccupino di quelli dei giudicandi. Il loro potere è grande. Hanno, totalmente o parzialmente, in mano il destino delle persone. Quando mi seggo davanti ad uno di essi per essere giudicato, devo potermi sentire tranquillo sulla sua autonomia e sulla sua obiettività.
Ci sono delle professioni che mal si conciliano con la politica. Per i giudici come per i medici la commistione non è il massimo. Non è un caso che per queste due funzioni sia previsto anche un abito esteriore ad hoc, camice o toga che sia, a significare la totale adesione esistenziale alla missione vera e propria.
Di fronte a tanta responsabilità l’Associazione dei magistrati faccia quindi ben altre battaglie: per avere mezzi e risorse migliori, per avere una legislazione di base più chiara e precisa possibile e norme procedurali efficaci e snelle, per essere preservati da ogni e qualsiasi pressione e/o intromissione, per contare su trattamenti economici e normativi equi e tali da rappresentare una difesa contro le tentazioni sempre possibili. I giudici non sono isole, ma tutto quanto sa di corporativo e di politico mi sembra superfluo se non fuorviante. La politica lasciamola ai politici… È meglio per tutti.