Come noto, le ricadute sono ancor peggio della malattia originaria e spesso ci colgono quando meno le aspettiamo, pensando di essere definitivamente guariti. Non so se l’ideologismo datato sia stato una malattia che ha colpito la politica. Certamente ne ha condizionato la concreta efficacia, deviandola verso le astratte questioni di principio e imprigionandola in schemi teorici.
Il muro di Berlino, che materializzava lo scontro idelogico tra capitalismo e marxismo o meglio tra occidente liberale e oriente comunista si pensava fosse caduto e il suo crollo avesse rappresentato la fine della sterile contrapposizione teorica per riportare la politica al confronto pragmatico sui programmi.
Ebbi subito all’epoca il timore che assieme alle ideologie se ne andassero anche le idee, che si corresse il rischio di buttare assieme all’acqua sporca del manicheismo ideologico anche il bambino valoriale.
Ricordo una stupenda vignetta di Forattini che dalle due parti del muro crollato metteva, se non erro, l’entusiasmo degli orientali finalmente liberi dalle catene comuniste e il dramma della tossicodipendenza degli occidentali con le siringhe infilate nel braccio. Dalla padella del comunismo alla brace del capitalismo.
Nel frequente dialogo con un carissimo amico comunista scambiavo l’ansia di ritrovarsi alle prese con una politica bottegaia, dove si avrebbe finito col scegliere il miglior cibo prescindendo dalla credibilità dell’offerente, ma soprattutto dal valore nutritivo del bene in vendita.
Il fatto è che oltre il danno di avere precipitato la politica nel gorgo affaristico, in senso proprio e figurato, ci ritroviamo anche fra i piedi i devianti rigurgiti ideologici, che vogliono riportarci al secolo scorso, lasciandoci intravedere i fantasmi delle dottrine superate, come sta avvenendo a Busseto e dintorni con i fantasmi di Giuseppe Verdi.
In questi giorni sono ben tre le questioni che hanno offerto e offrono l’occasione per reintrodurre alla grande lo scontro ideologico: l’abolizione dei voucher, il Daspo urbano e la nomina dei manager di Stato.
La CGIL si è presa la grave responsabilità di equivocare sul recupero del proprio ruolo invadendo brutalmente il campo legislativo e governativo e di reintrodurre nel discorso del mercato del lavoro elementi di vera e propria contrapposizione ideologica. I voucher sono diventati il simbolo dello sfruttamento e della precarizzazione del lavoro, scatenando una furia iconoclasta e spaccando il Paese con la richiesta di un referendum abrogativo di sapore pansindacale. Uno strumento, utilizzabile per impostare alla luce del sole e legalizzare i piccoli rapporti di lavoro, impossibili da inquadrare nelle fattispecie canoniche della contrattualistica codificata e burocratizzata, viene combattuto ed esorcizzato come fosse uno strumento di tortura a danno dei lavoratori saltuari e precari e soprattutto un’occasione per affamare il popolo. Tutto giustificato demagogicamente dall’abuso che di tale strumento si sarebbe fatto e si farebbe per coprire evasione salariale, contributiva e fiscale. Un’opportunità per far emergere il lavoro nero diventa occasione per ributtare nel nero i rapporti regolari. Queste le motivazioni della guerra dichiarata ai voucher. Ogni e qualsiasi strumento, anche il più neutro, nelle mani dell’uomo si presta ad essere abusato: vale per i farmaci, per il cibo, per il danaro, per gli abiti, per ogni e qualsiasi cosa.
Mio padre, persona costituzionalmente anti-ideologica, era capace di sdrammatizzare anche le più gravi situazioni, aveva l’abilità dialettica di ridurre le questioni ai minimi termini, non per evitarle, ma per affrontarle in modo pacato e realistico. Di fronte alle reazioni esagerate e catastrofiste metteva in campo una curiosa similitudine: «Se a vón ag va ‘d travèrs un gran ‘d riz, an magnol pu al riz par tutta la vitta? No, al sercarà ‘d stär pu atenti…». Si trattava proprio di stare più attenti, di controllare meglio, di regolamentare con maggior precisione, ma certo non era e non è il caso di farne una guerra ideologica. Oltretutto adesso tutta la colpa ricade sul governo, perché di fronte a chi spingeva a forza la porta, ha avuto l’idea di aprirla improvvisamente depotenziando, forse nel peggiore dei modi, la carica dei distruttori: anche il governo infatti ha finito con l’agire indirettamente sotto il condizionamento ideologico, preferendo sgombrare il campo dalla questione piuttosto che affrontarlo, col rischio di spaccare il Paese su una questione di politica del lavoro rinviata a data da destinarsi.
Ma non ci sono solo i voucher. Vediamo il cosiddetto Daspo urbano. Da tempo è in atto, anche all’interno della sinistra, la discussione sulla necessità di garantire sicurezza ai cittadini, non lasciando ai populisti di professione questo tema così delicato e sentito dalla gente. Ebbene, non appena un ministro, che oltretutto viene da una formazione culturale e politica di sinistra, tenta, di concerto con i comuni, di regolamentare la vita urbana e di arginare, peraltro in modo soft (sanzioni pecuniarie per chi si rende protagonista di episodi di degrado urbano, ordinanze dei sindaci con riferimento alla vendita di alcolici e alle situazioni di grave incuria al territorio, interventi a difesa dell’ordine pubblico in occasione di cortei e manifestazioni) writers, mendicanti, ubriachi, ambulanti non autorizzati, parcheggiatori abusivi, scoppia un finimondo di polemiche sulla presunta criminalizzazione degli emarginati, sullo spostamento dei problemi dal centro alle periferie, sul solito benaltrismo sociale, etc.
Siamo ancora nel campo puramente ideologico. Ha un bel dire il ministro Minniti che non si tratta di legge di destra: lo stanno mettendo in croce, perché ha avuto l’ardire di provare a risolvere qualche problema a livello di civile convivenza. «È uno strumento del tutto inefficace perché sposta il problema senza alcuna ambizione di risolverlo e soprattutto trasforma la guerra alla povertà e alla marginalità in una guerra contro i poveri e i marginali. È ipocrita, razzista e cattivo: penso abbia aspetti incostituzionali, prevedo un ricorso alla Corte suprema e noi faremo una battaglia politica durissima contro questa abdicazione definitiva della cultura di sinistra verso quella di destra», così il commento al decreto da parte del segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Pura ideologia, inconcludente e datata.
Arriviamo al punto tre: la nomina da parte del Governo dei Manager di Stato. Apriti cielo! Il blog di Beppe Grillo si scatena: «Renzi si sta dedicando, senza aver alcun titolo, a gestire le nomine e a piazzare i suoi uomini. Grave, intollerabile e pericoloso». Mi sembra normale che l’opinione di Renzi abbia influito: era Presidente del Consiglio da tre anni fino a tre mesi or sono e questa partita l’aveva certamente istruita da tempo. Che non siano stati rinnovati un paio di manager per scarsa sintonia con le linee politiche del governo non mi scandalizza affatto. Si tratta di manager di Stato nominati dal governo: a chi dovrebbero rispondere? A Beppe Grillo? Agli editorialisti de la Repubblica in vena di antirenzismo a tutti i costi?
L’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, chiedeva con tutta l’insistenza possibile a Enrico Mattei, Presidente Eni, di salvare “La Pignone” e il posto di lavoro dei suoi dipendenti: un dialogo diventato storicamente emblematico e culturalmente stimolante. Allora mi chiedo perché Renzi non possa chiedere all’amministratore delegato di Poste di intervenire per rilevare il risparmio gestito Pioneer da Unicredit in modo da evitare che finisca in mani francesi, di dare una aiuto per risolvere il problema Monte Paschi Siena. Erano operazioni antieconomiche? Tutto da dimostrare nel tempo a venire e nel contesto generale. Intromissioni politiche? Se non si intromette sugli Enti di Stato, cosa ci sta a fare il governo a livello economico-finanziario?
Mi sembra di essere tornato al periodo in cui il PCI faceva opposizione ideologica e generalizzata su tutto, con il piccolo particolare che almeno la sapeva fare, mentre oggi siamo a livello di penosi dilettanti della politica e di replicanti della storia strapassata. Le ideologie uscite dalla porta rientrano dalla finestra e condizionano il confronto politico riducendolo a scontro pregiudiziale. Non sarà il caso di darsi una regolata?