Avevo un compagno di classe che, quando veniva interrogato a sorpresa, senza essere adeguatamente preparato, sciorinava dei “diciamo così” a tutto spiano, suscitando l’irritazione degli insegnanti e l’ilarità degli alunni.
Una cara amica di mia madre era invischiata in una serie interminabile di intercalari dialettali, che compromettevano gravemente il filo del discorso: “al fa’”, “al dis”, “at capì”, “al g’ha ditt”.
Molte persone più colte e raffinate si rifugiano in “è vero”, “mi spiego” e roba del genere.
Da qualche tempo va di gran moda “ovviamente”: non c’è personaggio rispettabile che non vi faccia ricorso con una frequenza assurda e irritante. Anche perché, mentre gli altri intercalari sono abbastanza neutri, questo assume un rilievo provocatorio: per il fatto che non c’è proprio niente di ovvio sotto il sole.
Giornalisti, commentatori, conduttori, attori, cronisti, politici, ministri, presidenti, chiunque insomma prenda in mano un microfono o se lo veda sbattere sotto il naso, ripiega su questa litania di “è ovvio”, “ovviamente” etc. etc.
Credo che le scelte a livello di linguaggio abbiano sempre un loro significato, al di là dell’effetto emulazione: se un grande e importante personaggio televisivo fa uso frequente di questi termini, finisce che chi ascolta, per non essere da meno, si lascia influenzare e ripete a macchinetta questo assillante “ovviamente”.
Partiamo dal vero significato dell’aggettivo “ovvio” con la sfilza dei suoi sinonimi: ciò che si presenta subito alla mente, di immediata comprensione, evidente, logico, naturale, patente, lampante, comprensibile, chiaro, facile, banale, lapalissiano. Innanzitutto quindi si potrebbe ogni tanto, almeno per rompere la monotonia, fare ricorso a uno di questi sinonimi: ne guadagnerebbe la brillantezza del discorso.
Credo però ci sia nel subconscio personale e collettivo la voglia di atteggiarsi a chi la sa lunga e che quindi può dare per scontato tanti concetti. Faccio un esempio: “questa legge in discussione dovrà, ovviamente, essere approvata dai due rami del Parlamento prima di entrare in vigore. Una volta entrata in vigore, ovviamente, dovrà essere rispettata dai cittadini e, ovviamente, applicata dai giudici.
Non è affatto ovvio che una legge presentata in Parlamento venga discussa e tanto meno approvata. Ammettiamo che succeda. In quel momento non è per niente ovvio che i cittadini la osservino: probabilmente è più ovvio il contrario, se vale il detto “fatta la legge, fatto l’inganno”. E i giudici? Tra lentezze, interpretazioni cavillose, punti controversi, contrasti con la Costituzione, prassi, giurisprudenza e dottrina, quella legge avrà ottime probabilità di finire nel conto delle tante fonti del diritto di cui (non) tenere conto.
Voglio raccontare in forma anonima un episodio effettivamente capitatomi durante l’attività professionale. Stavo aspettando con ansia il varo di un provvedimento che esentasse le cooperative dall’imposta di registro in caso di aumento del capitale sociale. Finalmente ebbi la certezza della sua approvazione dalle pagine del sole 24 ore: aveva pubblicato integralmente il decreto che entrava immediatamente in vigore. Dovevo procedere al deposito di un atto di aumento del capitale e quindi con una certa tranquillità informai il collega addetto all’esecuzione di queste pratiche. Dopo un paio d’ore ritornò e mi chiese: «Sei sicuro che questa norma sia stata approvata e sia in vigore? Perché il funzionario addetto mi ha categoricamente smentito e allora per evitare guai ho ritirato la pratica e chiederei gentilmente a te di seguirla direttamente». Capito, ci penso io. Contemporaneamente mi chiamò il direttore di questa cooperativa che doveva presentare l’atto, dopo la sua registrazione, nell’ambito di una urgente e importantissima pratica di finanziamento pubblico. Gli spiegai l’inghippo e lo pregai di pazientare un minimo di tempo affinché potessi recarmi direttamente all’ufficio competente e sbrigare la faccenda. L’esenzione in ballo riguardava una cifra tutt’altro che insignificante, però alla cooperativa stava a cuore la pratica principale per cui, al limite, mi dissero, siamo disposti a pagare l’imposta pur di sveltire i tempi e le procedure. Capii il ragionamento, ma insistetti e mi recai immediatamente, con la documentazione necessaria, all’ufficio competente in materia fiscale.
Il funzionario mi disse innanzitutto, con una certa presunzione burocratica, che gli uffici pubblici dialogano con i pubblici poteri non tramite il Sole 24 ore, ma con le circolari applicative: fino a quel momento non era arrivato nulla al riguardo e quindi… Mi irritai immediatamente, anche perché pensai, senza dirlo, che al cittadino non è permessa l’ignoranza della legge, mentre al burocrate evidentemente sì. Non trattavo una mia pratica personale e quindi cercai di rimanere calmo e dialogante.
Spiegai che la legge era già in vigore e gliene porsi il testo, illudendomi che andando alla sostanza si sarebbe potuto superare la forma. Nemmeno per sogno. Il funzionario lesse attentamente il testo e mi disse che la mia interpretazione era sbagliata e che quindi la cooperativa, in quel momento da me rappresentata, doveva pagare l’imposta. La calma cominciava a farmi difetto, ma provai a spiegare la cosiddetta “ratio” del provvedimento che conoscevo da tempo, ben prima che fosse approvato definitivamente. Niente da fare, trovai il muro. Mi allontanai dalla scrivania di questo impiegato e uscii. A quel punto, per orgoglio personale, per rispetto dei diritti e per convenienza, decisi di andare a parlarne con il capo in testa. Per fortuna era presente e, seppure in modo molto freddo, mi accolse e mi fece descrivere la questione. Gli spiegai l’accaduto, gli misi sotto il naso il testo della legge, lo prese e lo lesse attentamente e pignolamente, più di una volta. Me lo restituì e mi disse: «Ha ragione lei!». Rinfrancato da questo primo risultato ebbi comunque l’ardire di chiedere il suo intervento sul funzionario in questione, dal momento che la pratica non poteva essere sbrigata dal capo, ma da quel suo testardo sottoposto.
«Mi faccia la cortesia, dottore, di informare il suo funzionario e di convincerlo al riguardo» gli chiesi con molto garbo. Capì, accettò, sollevò il telefono è parlò con l’impiegato del No. Niente da fare, compresi che anche lui stava trovando del duro, al punto che si alzò e mi disse di seguirlo: andavamo direttamente in bocca al “leone”. Dentro di me dicevo: “Sono curioso di vedere come va a finire…”. Il direttore spiegò il significato della legge, ma non riuscì a convincere il suo collaboratore, certamente irritato dal fatto di essere stato da me bellamente scavalcato. Cosa che non mi piaceva, ma a cui avevo dovuto fare ricorso: ad estremi mali, estremi rimedi.
Il direttore insistette, garantì di prendersi lui la responsabilità di questa decisione e finalmente la questione si sbloccò, l’atto venne regolarmente registrato in esenzione da imposta. Il direttore mi salutò con un piccolo accenno di sorriso e, se ben ricordo, aggiunse: «Ci vuole molta pazienza…». Ricambiò cordialmente il saluto e ringraziai.
Uscendo comunicai con un pizzico d’orgoglio l’esito della mia missione alla cooperativa, che incassò il risultato senza concedermi (giustamente dal suo punto di vista) nessun particolare merito.
Arrivai in ufficio, chiamai il collega che aveva iniziato la trafila di quella sofferta pratica e lo invitai caldamente a non rivolgersi più, per altre eventuali situazioni difficili, a quel funzionario testardo: i motivi li lascio intuire a chi avrà la pazienza di leggere questo raccontino.
Penso di essere stato chiaro e di avere reso l’idea del perché mi irrito, quando sento abusare dell’intercalare da cui siamo partiti. Non c’è niente di ovvio, prendiamone atto e soprattutto finiamola con questo pedante “ovviamente”. Caso mai, torniamo al classico “vero…”. Da ovvio a vero: forse è ancora peggio. Beh, allora, lasciamo stare e parliamo come mangiamo e come dice il Vangelo: Sì, sì’, No, no. Il resto viene dal maligno!