Il tormentone del congresso PD è partito in quarta. Non si capisce bene se sia un congresso o se sia una campagna elettorale in vista delle primarie. Certamente un’altra cosa rispetto alle comunarie social indette dai grillini a Monza e in altri siti: candidature strappate sul filo delle poche decine di preferenze espresse sul web.
Paese strano l’Italia, dove chi è accusato di essere antidemocratico non finisce mai di discutere, consente una libertà di comportamento quasi paradossale ai propri parlamentari (non voto di fiducia al governo, campagna elettorale per il No al referendum, etc.), fa una conta dietro l’altra a tutti i livelli, mentre chi si atteggia a difensore della democrazia vive in regime autoritario (comanda uno solo, il resto è fuffa), non accetta contestatori, che al primo accenno vengono poco educatamente invitati a togliere il disturbo, candida a ricoprire cariche pubbliche i propri rappresentanti scelti in base a gassose consultazioni.
I casi sono due: o il partito democratico è tutto fumo e niente arrosto, tutta forma e niente sostanza, tutta scena e niente dramma oppure è una formazione politica che, seppure faticosamente e contraddittoriamente, cerca un contatto con la base degli iscritti e degli elettori; o il movimento cinque stelle è talmente carismatico da essere tutto arrosto e niente fumo, tutta sostanza e niente forma, tutto dramma e niente scena oppure è una formazione politica che non cerca il contatto con la base dei propri aderenti e dei propri elettori, ma dà ragione agli scontenti raccattandoli tutti e quindi non ha bisogno né di contarli né di farli discutere, anche perché aprendo il dibattito la ragione e il torto potrebbero diventare concorrenziali.
Le primarie del PD, un partito immaturo e lacerato, rischiano di radicalizzare all’italiana le contrapposizioni, creando lacerazioni difficilmente rientrabili all’indomani del voto, quando occorrerà ricompattarsi per andare alle successive istituzionali gare elettorali. Sinceramente, stando a quanto emerge dalla dialettica in atto, faccio fatica a capire se le differenze politiche fra Renzi i suoi competitor interni non siano l’anticamera di veri e propri partiti diversi. Non so se lo strumento delle primarie si attagli al nostro sistema partitico ed alla nostra tradizione politica: in teoria dovrebbe essere un passo avanti nel confronto e nel dibattito, temo che in pratica possa aggiungere solo benzina sul fuoco polemico; sulla carta dovrebbe essere un modo per ancorare la politica ai problemi concreti ed alle loro soluzioni, vedo invece che diventa l’occasione per rituffarsi negli scontri ideologici e nelle disperate ricerche di identità storiche e culturali; culturalmente parlando dovrebbe essere il marchingegno per fondere a caldo democrazia e leaderismo, mentre spesso diventa la fuga in avanti dei personalismi.
Gli strumenti non sono mai buoni o cattivi di per sé, dipende dall’uso che se ne fa. Se le primarie vengono celebrate all’acqua di rose (riservate agli iscritti) finiscono nel tritacarne degli apparati di partito che se le giocano dall’alto orientando la base; se si fanno sul serio scatenano una bagarre da cui i partiti possono uscire a brandelli.
L’overdose di democrazia può essere antidemocratica tanto quanto un’astinenza dai meccanismi democratici. Tutto è relativo. Io tuttavia preferisco rischiare giocando all’attacco che chiudermi in difesa: meglio perdere quattro a tre che uno a zero all’ultimo minuto. Come nel calcio però, sono convinto che non si vince con gli schemi, con le tattiche, ma con giocatori validi, preparati, esperti e seri. Le primarie restano cioè solo un’opportunità, possono addirittura diventare delle “primine”, dipende da come e da chi le pratica.
Persino il Papa ha lanciato le primarie (molto soft, ma per la Chiesa è un fatto enorme…) per nominare il suo vicario a Roma: tutti potranno inviare le loro proposte, formulando anche nominativi, poi lui deciderà. Nelle novità introdotte da Francesco c’è propria la cifra sinodale: le vere primarie tematiche della Chiesa.
In questi casi l’ultima parola spetta al capo, ma, con tutto il rispetto per i capi politici, il Papa ha dietro le spalle un consenso piuttosto pesante, di quelli che non si contano ma si pesano. Speriamo non succeda come avvenne con Paolo VI, il quale aprì una grande consultazione sul problema del controllo delle nascite, sentì esperti, scienziati, teologi, commissioni, etc. Tutti dissero che la maggioranza dei pareri raccolti era favorevole all’uso degli anti-concezionali. Lui prese tempo, ci soffrì sopra e ne usci il capolavoro (lo è in tutti i sensi) di immobilismo dell’Humane vitae (e non ci si schioda di lì. È come per le riforme costituzionali italiane, bloccate quelle promosse da Renzi, se ne parlerà fra vent’anni nella miglior delle ipotesi).
Anche la Conferenza Episcopale Italiana, che si appresta a nominare il suo presidente, ha deciso di chiedere a tutte le diocesi ed ai loro vescovi di indicare almeno un identikit del futuro candidato. Strano atteggiamento quello della CEI: da una parte rifiuta la nomina in autonomia, come avrebbe preferito il Papa, dall’altra sceglie di rifugiarsi sotto la gonna del pontefice lasciando a lui la scelta all’interno di una rosa di tre candidati, dall’altra ancora imposta una consultazione della periferia. Si mettessero d’accordo. Posso essere malizioso? I vescovi amano comandare, ma preferiscono farlo dietro le quinte e senza rischiare troppo. Se ci scapperà un presidente non all’altezza del compito sarà tutta colpa del Papa, che in fin dei conti l’ha scelto e delle diocesi che ne avevano disegnato il profilo; se sarà un buon presidente sarà tutto merito loro che lo hanno selezionato democraticamente a due livelli, senza mancare di deferenza verso il Papa. Finezze da Vaticano III.