Il pugno duro contro chi si macchia di crimini di genere non può essere l’unica risposta a un fenomeno complesso e pervasivo come la violenza contro le donne, che ha una forte componente storica e culturale – residui del patriarcato, desiderio di controllo, incapacità di riconoscere e accettare l’indipendenza e l’autonomia delle donne da parte… Da una parte non sembra che un inasprimento della pena – teorico perché, come detto, già ora il femminicida può essere punito con il carcere a vita – possa avere una efficacia deterrente su un uomo che decide di uccidere “una donna in quanto donna”. Dall’altra il cambiamento non può che partire dai più giovani, e quindi dall’educazione alla parità e al rispetto, in famiglia e nelle scuole. Ma questo è un altro capitolo della storia. Il più urgente. (dal quotidiano “Avvenire” – Antonella Mariani)
Di fronte al fenomeno dei femminicidi, sempre più sconvolgente e invadente, ho una prima reazione di tipo etico-religioso dovuta alla considerazione che queste manifestazioni possano essere riconducibili alla violenza fine a se stessa (molto spesso i responsabili stessi non riescono a portare un minimo di giustificazione ai loro comportamenti). Il male per il male! Un sottofondo demoniaco?
Mi risulta che papa Paolo VI, dopo avere dialogato con il professor Vittorino Andreoli, noto criminologo e famoso psichiatra, lo abbia accompagnato cortesemente all’uscita, suggellando in modo inquietante lo scambio di opinioni che avevano avuto: «Si ricordi professore che il diavolo esiste!». Ricordiamocene anche noi, non per sfuggire alla realtà, ma per inquadrarla compiutamente.
La seconda è la reazione alla reazione, cioè il rifiuto della scorciatoia giustizialista che può spontaneamente indurre in tentazione. Se evocare il demonio può diventare un alibi deresponsabilizzante e fuorviante, a maggior ragione può essere semplicistico il fantasma dell’ergastolo sventolato in faccia a chi è completamente accecato dall’istinto violento. Forse sarebbe più opportuno strutturare, sistematizzare e potenziare l’intervento a difesa e supporto delle donne nel mirino degli stalker.
Mio padre credeva così fermamente e ingenuamente alle regole ed alla necessità di rispettarle al punto di illudersi di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. “Chi usa violenza estrema alle donne sarà condannato all’ergastolo”: un sacrosanto cartello che servirà a ben poco…
Il problema dei femminicidi ha molte cause, viene da lontano, riguarda un po’ tutti gli aspetti della vita sociale. C’è al riguardo il discorso del dipanare la responsabilità individuale con quella sociale. Un mio conoscente, esperto ed impegnato allo spasimo nel recupero dei tossicodipendenti, era portato ad escludere (quasi) completamente le cause sociali da questa piaga, facendo prevalere nella caduta e nella ripresa la volontà personale. A prova di questa sua pur discutibile tesi portava la innegabile realtà di soggetti tossicodipendenti provenienti da famiglie modello e di famiglie disastrate con figli modello. Il discorso potrebbe valere anche per la violenza sessista.
Mia madre era portata a giustificare i delinquenti, soprattutto se giovani, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja. Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.
Sul ruolo educativo della famiglia non esiste perfetta concordanza di vedute. Abbiamo visto la tesi dello psicologo scettico. Vediamo quelle di quanti credono fermamente nel ruolo e nella responsabilità genitoriali.
Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente? Aveva perfettamente ragione. Capisco che esercitare il “mestiere” di genitori non sia facile ed agevole: di qui a fregarsene altamente…
Voglio ad esempio riferire quanto detto da uno psicologo ad un mio carissimo amico in merito alla credibilità della testimonianza dei genitori nei riguardi dei figli. “I figli giudicano i genitori da due comportamenti molto precisi: da come si rapportano con il coniuge e da come affrontano il lavoro”. In questa regola potrebbe essere contenuta gran parte della spiegazione per la crisi dei rapporti fra genitori e figli.
Non mi sembra giusto buttare la palla dei femminicidi nella tribuna socio-culturale, così come ritengo pressapochista rifugiarsi nel corner dell’ergastolo. Una cosa è certa: questa piaga è causa-effetto di parecchi fattori. La deriva socio-culturale che caratterizza la nostra epoca ci deve spingere ad analizzare le situazioni e a concretizzare i rimedi uscendo da fariseismi e perbenismi.
In conclusione ricordo che, molti anni fa, monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti.