Il conflitto sociale andante ma non troppo

La politica non è rimasta a guardare e a vario titolo sono diversi i parlamentari intervenuti a favore di uno dei due fronti contrapposti. La segretaria del Pd Elly Schlein è stata tra i più attivi e ha denunciato la «sordità del governo rispetto alle istanze della Cgil e della Uil», stigmatizzando «il rifiuto ad ascoltare le loro ragioni e la forzatura di negare il diritto allo sciopero che è un diritto costituzionale». Poi la “benedizione” alla protesta di oggi: «Un grande sciopero di cui condividiamo le ragioni e saremo al loro fianco». Attacchi simili anche dal M5s e da Avs, mentre lo schieramento opposto ha difeso in ordine sparso sia il governo sia il Garante. Esercizio in cui si è distinto il vicepresidente leghista del Senato, Gian Marco Centinaio, che ha sparato dritto su Landini, colpevole di «usare lo sciopero per le sue ambizioni politiche». (dal quotidiano “Avvenire”)

Che lo sciopero sia un evento divisivo è scontato, però bisogna verificare dove avvengono le divisioni. Che lo sciopero sia un diritto costituzionale è verità incontestabile, però bisogna vederne ed eventualmente discuterne l’opportunità. Che la manovra economica del governo sia inconsistente, contraddittoria e oserei dire provocatoria è facilmente accertabile, però bisogna chiedersi se lo sciopero, tatticamente parlando, serva a mettere il governo con le spalle al muro.

Parto dalle divisioni. La prima riguarda le confederazioni sindacali: la Cisl non ha aderito e non è un fatto marginale. Credo che questa divaricazione nel mondo del lavoro sia piuttosto grave anche perché parte da un diverso modo di rapportarsi col governo: chi ritiene indispensabile una contestazione forte e generale verso il governo attuale, chi ritiene utile comunque proseguire nel dialogo e nel confronto partendo dalle poche cose buone contenute nella manovra economica e tenendo conto dei limiti oggettivi imposti dalla finanza pubblica.

La seconda divisione è fra i lavoratori che protestano e i cittadini che vengono messi in evidenti difficoltà dallo sciopero: mi riferisco soprattutto agli utenti dei servizi pubblici e al fatto che sono i soggetti più deboli a soffrire le immediate conseguenze di una generale astensione dal lavoro. Uno sciopero generale finisce cioè per creare disagi a quei cittadini già puniti direttamente o indirettamente dallo sgovernare del centro-destra. Un autogol? Temo, almeno in parte, di sì.

La terza divisione avviene tra il mondo del lavoro e l’opinione pubblica, che fa molta fatica a capire la situazione sociale e tende a buttare tutto nella “pandana” della carenza di mezzi finanziari, della responsabilità dei governi passati e delle difficoltà internazionali. Tutti fattori che, pur nella loro evidente realtà, non possono giustificare le colpe di chi ci sta malamente governando.

La quarta divisione si registra in campo politico. Mentre il governo tende a squalificare o addirittura a “criminalizzare” il comportamento dei sindacati dei lavoratori, l’opposizione di sinistra ne sposa acriticamente e strumentalmente le ragioni. L’autonomia del sindacato rispetto ai partiti è un valore conquistato ed irrinunciabile, pena la perdita di credibilità e di efficacia. Un governo alla canna del gas si oppone aprioristicamente al sindacato inimicandoselo strumentalmente; l’opposizione, debole e divisa, sfrutta la scia e il coraggio del sindacato. Non ci siamo!

Arrivo al punto dell’opportunità o meno di proclamare lo sciopero generale, strumento molto delicato da usare con intelligenza strategica ed abilità tattica. Mi permetto di nutrire qualche dubbio sull’utilità dello sciopero del 29 novembre scorso. Temo che abbia creato confusione e, in fin dei conti, abbia rafforzato il governo, al quale non par vero di nascondere le proprie magagne dietro il nemico sindacale che avanza. Il sacrosanto discorso della rivolta sociale è molto più profondo, difficile e complesso ed è l’alternativa totale o parziale al discorso della concertazione di ciampiana memoria: non partiamo quindi lancia in resta e per la tangente!

Da una parte quindi massimo riguardo al valore delle lotte sindacali e dall’altra massima cautela per non passare da reazionari. Stiamo attenti a non cadere nelle trappole del pansindacalismo e del disfattismo. Due episodi tratti dalla mia vita possono aiutare al riguardo.

Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena incominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importavano i lavoratori della Salamini. che stavano rischiando il loro posto e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro. Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. Mi è tornato alla mente questo piccolo episodio della mia vita in concomitanza con la riproposizione del dibattito sullo sciopero generale di questi giorni.

«I gh’ la fan» diceva mio padre fra sé, seduto davanti al video, ma in seconda fila, come era solito fare, per dare libero sfogo ai suoi commenti al vetriolo senza disturbare eccessivamente. Stavano trasmettendo notizie sulle battaglie sindacali a tappeto. Mi voltai incuriosito, anche perché, forse volutamente, la battuta, al primo sentire piuttosto ermetica, si prestava a contrastanti interpretazioni. «Co’ vot dir? A fär co’?» chiesi, deciso ad approfondire un discorso così provocatorio e intrigante. «A ruvinär l’Italia!» rispose papà in chiave liberatoria, sputando il rospo. Badate bene, mio padre era un antifascista convinto, di mentalità aperta e progressista, un tantino anarchico individualista: tuttavia amava ragionare con la propria testa e si accorgeva, fin dagli anni settanta, che la strategia sindacale può esagerare e compromettere il quadro socio-economico. Provocatoria testimonianza valida oggi più che mai.

Sulla regolamentazione del diritto di sciopero si discute da tempo immemorabile: non credo che questo problema si possa risolvere a suon di precettazioni e di ricorsi al Tar.  Serve un cambio di mentalità socio-politica, che vedo molto improbabile nei soggetti attualmente sulla scena italiana. Le forze sociali devono ritrovare il loro ruolo e la politica deve aprirsi ad esse. Le forze politiche devono rientrare nel gioco democratico per dare alla società garanzie di indirizzo e guida. Questa è la cornice di un quadro da dipingere e non da imbrattare.