Il centro-destra fra plàti e patonón

Le spaccature nel centro-destra (sostanzialmente destra-destra, ma di fatto armata brancadestra) non si contano più, non si riesce nemmeno a starci dietro, tanto sono numerose ed eclatanti. E il governo sembra non fare neanche una piega (fino a quando?). Nella, tanto ingiustamente bistrattata, prima repubblica i governi andavano in crisi per molto meno…

Non si riesce a comprendere se questa conflittualità sia dovuta a motivi politici o di pura spartizione di potere o di mera concorrenza elettorale o di irresponsabile gioco al massacro o di scelta di marciare divisi per colpire uniti. Di tutto un po’. Fatto sta che non ci si capisce più niente: non vorrei essere nei panni dell’elettore di destra, ma probabilmente a questo elettorato le cose, tutto sommato, vanno bene così.

Tatticamente parlando, Matteo Salvini ha parecchie gatte da pelare in casa propria: gli imprenditori dell’est non gradiscono lo sperpero di fondi pubblici sul ponte dello Stretto; i governatori regionali esigono spazio e continuità; i nordisti desiderano un pieno ed effettivo ritorno all’identità degli inizi; la base è fuorviata dalle vannacciate varie ed eventuali. E allora cosa c’è di meglio che alzare i toni dello scontro nel centro-destra per ritrovare un po’ di quiete fra le mura leghiste.

Antonio Tajani vuol fare il moderato, ma ha sul collo il fiato degli interessi di Mediaset e dintorni: basti pensare alla farsa degli extra-profitti bancari e a quella più recente del canone Rai. Alla fine tutto si riduce alla necessità di mostrarsi come il poliziotto buono che finisce col fare il gioco di quello cattivo. Se devo essere spietato direi che Forza Italia sta facendo la parte dell’utile idiota, vale a dire sta tenendo un tipico atteggiamento di ipocrita dabbenaggine o di abile furberia mascherata da ingenuità, buona fede e false intenzioni.

Giorgia Meloni lascia fare, sopporta un clima di perenne ricreazione che potrebbe trasformarsi in cagnara dell’ultimo giorno di scuola, riservandosi la leadership di questo coacervo di pecoroni: i suoi punti di forza stanno nel panorama internazionale, che però sta rapidamente evolvendo e scoprendo gli altarini di una politica altalenante e strumentale. La presidenza Trump mette a soqquadro i rapporti internazionali su cui si basano ruolo e tattica meloniani. Qui potrebbe cascare l’asino. Qui potrebbe iniziare lo spogliarello di Giorgia, presto fatto: sotto il vestito niente. Qui potrebbe bastare un giudice qualsiasi che grida: la regina è nuda!

Altro punto di forza del melonismo è il potere costruito e difeso a denti stretti con una stringente ed asfissiante strategia mediatica, che potrebbe cominciare a dare qualche segno di debolezza o cediemnto: mi riferisco ai precari equilibri sul mercato, ad una informazione che potrebbe sfuggire di mano, agli improbabili ma possibili risvegli sociali (i focolai di malcontento non mancano e prima o poi non basterà la repressione…), al fatto che un conto era l’elegante pugno berlusconiano un conto è l’insopportabile pugnetto meloniano (il primo la sapeva molto più lunga…e non è un caso che non gradisse la presunzione della seconda).

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plàti par rìddor, a n’è basta che vón ch’a  guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Manca questo terzo incomodo che sappia rovinare il giochino. E pensare che basterebbe poco. La sinistra invece preferisce esercitarsi nella stessa direzione con la differenza che non possiede il collante dell’informazione drogata e della furba (?) capacità di sintesi tattica.

Ne esce un clima da “tutti contro tutti” in cui a rimetterci è il cittadino illuso o deluso: le due facce della stessa medaglia in tasca all’elettore sempre più distante per non dire assente.