Un secco e motivato no alle scorciatoie repressive

Prima notte di quiete nel quartiere milanese del Corvetto tra martedì e mercoledì dopo tre notti di tensioni e di vandalismi seguiti alla morte del 19enne Ramy Elgaml, avvenuta in un incidente su uno scooter guidato da un 22enne tunisino mentre i due giovani erano inseguiti dai carabinieri, domenica mattina alle quattro in via Ripamonti. Piazza Gabriele Rosa l’altra notte era presidiata da sei blindati del reparto Mobile della polizia, con altri tre mezzi che stazionavano in piazzale Lodi a supporto. Questo è o più o meno il programma delle notti blindate al Corvetto per i prossimi dieci giorni, secondo quanto stabilito dalla questura e dalla prefettura.

Oltre allo spiegamento della forza pubblica, a placare gli animi però hanno contribuito le dichiarazioni delle persone più direttamente colpite da questa vicenda, i familiari del 19enne morto. «Noi rispettiamo la legge italiana. La Repubblica italiana è un secondo Paese per noi. Lui si sentiva più italiano che egiziano, non parlava nemmeno quasi l’arabo. Voglio solo la verità per mio figlio. Io non c’entro niente con i disordini e non voglio che quello che è successo l’altra notte in strada venga accostato a noi. Noi con la violenza non c’entriamo», ha ripetuto il padre di Ramy, Yehia Elgaml, dissociandosi dai disordini dell’altra notte. «Il fatto che siano stati indagati sia i l carabiniere che l’amico di Ramy alla guida dello scooter per noi significa che le ricerche proseguono a 360 gradi e questo ci dà fiducia», ha aggiunto il genitore, egiziano, da 11 anni in Italia, residente in una casa popolare del quartiere, in via Mompiani, insieme alla moglie e il figlio maggiore, e dipendente di un’azienda di pulizie.

«Io con la famiglia stiamo restando a casa. Basta violenza – è il suo appello -. Non va bene. Va contro la volontà di verità e fa solo confusione. Il Corvetto è un posto tranquillo. Hanno fatto casini per il loro amico, per chiedere giustizia, ma non sono cattivi. Senza Ramy siamo rimasti senza più cuore, è stato preso il mio cuore. Quando però arriverà la verità per lui, vorremmo fare una manifestazione pacifica tra i ragazzi di tutti i quartieri. Un cammino per la pace. Vogliamo far vedere agli italiani il nostro lato positivo», ha concluso il genitore, affermando anche che la salma non verrà espatriata in Egitto, dove vivono un altro fratello e una sorella di Ramy, ma rimarrà «vicino a papa e mamma». Parole che sono piaciute al sindaco di Milano Beppe Sala, che ha invitato i genitori e la fidanzata del 19enne morto a Palazzo Marino. (dal quotidiano “Avvenire” – Simone Marcer)

Ho volutamente aspettato a commentare questo increscioso fatto, in attesa che si calmassero le acque molto agitate e per rifletterci sopra. Finalmente si può ragionare. Superiamo emozione, commozione, rabbia, violenza e intolleranza. Non cadiamo nella trappola delle scorciatoie repressive così come stiamo attenti a non indulgere agli stucchevoli sociologismi datati.

Ci sono alcuni fattori che devono concorrere alla pacificazione degli animi dopo il bruttissimo episodio milanese. Inizio dalla fine vale a dire dall’ordine pubblico: va gestito con molta fermezza, ma con altrettante serietà e moderazione senza dare l’idea di una guerriglia per le vie periferiche di Milano. I protagonisti della vicenda, comprensibilmente e tragicamente colpiti dall’accaduto, devono spegnere i bollenti spiriti per far posto alla volontà di civile e solidale convivenza. Le pubbliche autorità devono accertare la verità dei fatti senza giustizialismi del giorno dopo, ma per riportare il tragico episodio alla realtà e per trarre da essa utili indicazioni per il futuro. La politica non strumentalizzi, non butti benzina sul fuoco, non cavalchi i disagi e le proteste, ma li assuma come impegno ad affrontare i problemi che stanno a monte di queste situazioni delle periferie cittadine.

I familiari del giovane morto nel tragico incidente stanno dando il buon esempio a tutti, la loro testimonianza è molto importante, non lasciamola passare inosservata per ripiegare sulla conflittualità fine a se stessa. La nostra società è piena di problemi, che non si risolvono con le maniere forti, ma con la pazienza che è la virtù dei forti.

Chiudo con un ricordo politico personale. Ero segretario di una sezione cittadina della democrazia cristiana. Aderivo ad una correte della sinistra sociale. Durante un dibattito assembleare usci il tema del disarmo della polizia nei conflitti di lavoro. Un iscritto cominciò a gridare: “Mi a la polisia ag dariss i canòn!!!”. Purtroppo interpretava un sentimento diffuso di intolleranza, molto simile, se vogliamo, a quello odierno. Non vorrei che qualcuno auspicasse di dare alla polizia licenza di sparare e di intervenire senza pietà su chiunque turbi l’ordine pubblico. Allora persi la segreteria della sezione (poco male…). Oggi potremmo perdere la bussola della convivenza civile.