A noi resta una domanda: ma davvero il problema del giornalismo è che non deve schierarsi? Facciamo un salto in Italia, a sabato scorso. Alle 16.01 la principale agenzia di stampa, titolava: Valencia, «un cimitero nel centro commerciale». L’attacco è di quelli che sconvolgono: «Un enorme cimitero di acqua e fango avrebbe cancellato la vita di un numero imprecisato di persone…». A quell’ora nei quotidiani si sta iniziando a chiudere il numero della domenica e nelle redazioni dei siti molti sono già andati o stanno per andare a casa. Ma davanti a una notizia non si può stare fermi. Anche il più navigato dei professionisti si immagina le urla, la paura, la disperazione, le lacrime, le ultime parole e le preghiere di chi è rimasto intrappolato in quel parcheggio sotterraneo. L’agenzia prosegue: «I sub dell’Ume hanno dovuto aspettare che la melma fosse prosciugata per aprirsi il passo, ma qualcuno di loro ha già parlato di “un cimitero lì sotto”». Non dice altro. Quindi dobbiamo basarci su quattro parole («un cimitero lì sotto») pronunciate da un sub anonimo. Che sicuramente le avrà dette in buona fede, immaginando anche lui lo strazio che avrebbe trovato.
Così domenica mattina i giornali italiani riportano la notizia in prima pagina, con minore o maggiore evidenza. Alle 12.07 di domenica, però, cambia tutto. L’Ansa titola: «Non ci sono vittime nel parking ad Aldaia». Ovviamente è una splendida notizia, dopo una lunga serie di drammi da Valencia. Non puoi che essere felice. Ma un’amica ti gela con una domanda: com’è possibile che voi giornalisti abbiate dato l’allarme in prima pagina per una tragedia che non c’era, prima di verificare che la notizia fosse vera? Rispondo: sono sicuro che nessuno dei giornalisti coinvolti abbia lanciato l’allarme per calcolo, ma so che ancora una volta qualcosa non ha funzionato, tanto più che i giornali spagnoli non hanno pubblicato la notizia in prima pagina. (dal quotidiano “Avvenire” – Luigi Rancilio)
Innanzitutto complimenti ad “Avvenire” ed al suo redattore per la rara onestà intellettuale e la coraggiosa vena autocritica dimostrate. Mi ha sempre ironicamente turbato il ragionamento di dominio abbastanza comune in base al quale se si assiste direttamente ad un fatto e poi lo si va a leggere nelle cronache dei giornali si fa molta fatica a riconoscerlo.
Quindi l’obiettività dell’informazione è probabilmente da sempre un’autentica chimera. Tutto però dovrebbe avere un limite. Un conto infatti è indicare un fuoco, magari anche ingrandirlo un po’ per rendere l’idea, un conto è soffiarvi sopra per motivi di cassetta o per far piacere a qualcuno o per salire nelle vendite. I giornali e i media in generale si fanno pubblicità falsando la realtà e rendendola più attraente o più spiacevole agli occhi del lettore o dell’ascoltatore. Il discorso vale anche per le immagini messe in circolazione: c’è modo e modo infatti di selezionarle e di presentarle.
Si parte male, falsando la realtà e si continua peggio commentandola in modo superficiale e strumentale. Allora qualcuno potrebbe auspicare un’informazione neutra, amorfa, equidistante.
Per Jeff Bezos, proprietario di Amazon ma anche del quotidiano Washington Post, i giornali per (ri)guadagnare fiducia non devono schierarsi, tanto meno appoggiando un candidato alle presidenziali americane. Peccato che, qualunque siano state le vere ragioni che hanno spinto Bezos a intervenire sul suo giornale per affermarlo, la sua uscita ha fatto disdire in poche ore l’abbonamento al Washington Post a 250mila persone. (ancora una citazione dell’articolo sopra richiamato)
In un certo senso hanno ragione coloro che hanno disdetto l’abbonamento, perché l’informazione neutrale non esiste e, se esistesse, sarebbe la peggiore delle informazioni in quanto lontana dal cervello e dal cuore dei lettori e totalmente devitalizzata a livello di critica verso il potere.
L’importante sarebbe commentare le notizie apertamente e non presentarle in modo subdolo. L’informazione viaggia purtroppo su due binari: quello del potere economico che la spadroneggia direttamente e quello del potere politico che la condiziona e la coinvolge indirettamente. Il terzo binario, quello dei lettori, è un binario morto.
E pensare che per mio padre il giornale quotidiano era un simbolo della sua mentalità. Credo, fatti salvi i giorni di assoluto e totale impedimento, non abbia mai rinunciato al giornale, parola che, come annotava simpaticamente mia madre, era pronunciata da lui in modo dialettale, rotondo nella pronuncia, con una punta di enfasi: “Al giornäl”. E soprattutto negli anni di vita intellettualmente più vivaci, non si trattava del misero, anche se blasonato, quotidiano locale, ma di un giornale che portava in se qualcosa di più rispetto alla lettura parziale e localistica degli avvenimenti: cercava uno strumento di informazione che, seppur discutibile nei suoi contenuti, mettesse lui e tutta la famiglia in condizione di capire cosa stava succedendo al di la “dal cantón con borgh Bartàn”.
Questa sorta di culto della lettura del giornale mi è stato trasmesso pari-pari e l’ho praticato forse fin troppo. In età giovanile e matura sognavo di potermi ritagliare uno spazio mattutino di almeno un paio d’ore da dedicare sistematicamente alla lettura dei quotidiani, in modo da iniziare la giornata con le idee più chiare: una sorta di preghiera laica del mattino. E adesso che ho più tempo a disposizione devo confessare una sorta di scettico distacco, considerata la così scarsa attendibilità e profondità dell’informazione che mi viene propinata, nonché una motivata tendenza a spostare la lettura sui libri.
E ti torna in mente un passaggio dell’Edelman Trust Barometer 2024: «…per cercare di recuperare la fiducia, i giornali e i giornalisti devono impegnarsi a essere più trasparenti su come vengono prodotte le notizie e su come vengono verificate». Sembra facile, ma purtroppo non è così facile. Sulle nostre spalle pesano decenni e decenni nei quali «si è sempre fatto così», pesa la velocità, il fare tanto e spesso in fretta. Pesa una quantità sempre più crescente di notizie da vagliare in sempre meno tempo. Ma la verità è che non ci sono scuse. Per dirla con Justin Smith, cofondatore del sito di notizie Semafor, «per ripristinare la fiducia nell’informazione, dobbiamo guardare avanti, non indietro». Ieri mattina Smith ha pubblicato una lettera aperta a Jeff Bezos dove l’ha invitato a non pensare in maniera vecchia. «Abbiamo bisogno che ti rimbocchi le maniche e ti metta in gioco (…). Abbiamo bisogno di innovazione radicale e leader visionari». Mi permetto di aggiungere: abbiamo bisogno più di giornali bussola che di articoli da cliccare. Tutti. Noi giornalisti ma anche (e soprattutto) noi lettori. (è la conclusione del pezzo succitato)
In Italia siamo letteralmente disastrati: per trovare una voce giornalistica e mediatica critica verso il sistema bisogna cercarla col lanternino, per avere qualche stimolo bisogna cercare l’ago dialogante nel marasma omologante. Ricordo che Antonio Padellaro, quando fondò “Il Fatto Quotidiano”, disse di voler fare un giornale di parte e non di partito. Siamo sommersi da giornali e telegiornali né di parte né di partito: la danno su in modo vergognoso a chi governa e tutto finisce lì. Le poche voci dissenzienti tendono inevitabilmente a monopolizzare la critica rischiando peraltro di renderla scontata e stucchevole. I lettori e gli ascoltatori, sempre più numericamente limitati e culturalmente distratti, la bevono da botte senza accorgersene. E, tutto sommato, paradossalmente possiamo considerarci persone disinformate dei fatti.