Donald Trump mette le mani avanti lasciando intendere che una sua sconfitta non potrà che essere frutto di brogli elettorali. Al contrario penso che una sua vittoria non potrà che essere frutto di masturbazioni elettorali da parte degli americani. Forse i riconteggi e i dubbi sulla regolarità delle procedure saranno il salvataggio in corner di Kamala Harris. Un vero e proprio gioco delle parti in commedia. Staremo a vedere…
Mi permetto anch’io di mettere le mani avanti osservando come, al di là di un assetto istituzionale democraticamente blasfemo, il sistema elettorale statunitense consenta una vera e propria commedia/sfregio al suffragio universale, introducendo due discutibilissimi meccanismi: un voto sostanzialmente pesato sulla popolazione dello Stato di appartenenza, un sistema maggioritario senza alcun correttivo. Risultato finale: un presidenzialismo frutto di populismo, un parlamento senza capo né coda, una giustizia politicizzata, un isolazionismo/sovranismo a livello internazionale.
In questi giorni, in cui guardo televisivamente con un certo interesse le partite di tennis, mi è venuto spontaneo fare un collegamento tra vittoria tennistica in base a set, games e singoli punti e vittoria elettorale americana in base ai grandi elettori nominati all’ultimo voto e assegnati in base alla popolazione dei singoli Stati.
Questo meccanismo consentì a Donald Trump nel 2016 di battere Hillary Clinton che aveva ottenuto quasi tre milioni di voti in più. I primi risultati sembrano assegnare la vittoria a Trump addirittura anche nel voto popolare, superando la contraddizione di otto anni fa.
Tra incongruenze istituzionali, assurdità del sistema elettorale, bipartitismo forzato, fasullo e sganciato da principi e valori, competizioni truccate da lobbismi vari, voti comprati al mercato e assegnati alla viva la libertà di voto, narrazioni culturali taroccate, percezioni sociali in contrasto con la realtà, si arriva ad una democrazia sostanzialmente malata, che rischia di infettare il mondo intero.
Cosa potranno partorire le elezioni americane se non una creatura concepita nella triste provetta del “sondaggismo” e fatta crescere in un utero preso in affitto dai poteri forti? Cosa cambierà nel dopo elezioni? In quest’ultimo periodo in molti si sono esercitati in queste previsioni geopolitiche. È finito il tempo in cui nutrivo aspettative e mi appassionavo conseguentemente: dai Kennedy in poi è stata una lunga e inarrestabile caduta, forse con l’intervallo di Barak Obama. Anche l’opzione per il partito democratico, che mi sembrava storicamente giustificata e politicamente obbligata, ultimamente si è indebolita al limite di una diversità di mera immagine.
In una società dove la politica è invertita, vale a dire dove i ricchi votano a sinistra e i poveri a destra, dove la destra sa il fatto suo e la sinistra sbaglia sistematicamente le battaglie identitarie confondendo la modernità di costumi con la giustizia sociale, tutto può succedere, ma alla fine ho il timore che non termini solo la democrazia ma, ancor più e prima, la politica stessa.
Qualcuno ha già pronosticato che finiremo col rimpiangere Joe Biden. Può darsi che vada così, al peggio non c’è mai fine. Possibile, mi chiedo, che in una società come quella statunitense non ci fosse di meglio rispetto a Trump e Harris? Ogni popolo ha i governanti che si merita, con la piccola aggravante che la pomata americana, a torto o a ragione, viene spalmata su tutto il mondo.
Ricordo come all’indomani dell’attentato alle torri gemelle si intravedesse un trio di governanti a dir poco inquietante: Bush, Putin e Berlusconi. La situazione non è cambiata di molto: con ogni probabilità avremo il trio Trump, Netanyahu, Putin, con Xi Jinping pronto a sedersi al tavolo per giocare a “Tresette col morto”, vale a dire una partita giocata formalmente in tre ma virtualmente in quattro. E l’Europa? Ridotta al ruolo di osservatore, zittito al primo tentativo di spiaccicare parola. Fuor di metafora una sorta di equilibrio fondato sulla libertà per ogni potenza di fare i cazzi propri.
Aspettando Godot è un’opera teatrale del drammaturgo irlandese Samuel Beckett, nel quale due personaggi, Vladimir (Didi) ed Estragone (Gogo), si intrattengono in una varietà di discussioni mentre attendono il titolare Godot, che mai arriva. Anch’io mi sento in attesa del titolare della democrazia, che non arriva. Sono stanco di aspettare, anche se la speranza è l’ultima a morire, sì la sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron.
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