In Israele Benny Gantz è ad oggi l’unica alternativa elettorale vincente rispetto al premier Benyamin Netanyahu. Almeno stando ai sondaggi, che da mesi gli promettono non solo il primato di seggi per il suo partito nel caso di nuove elezioni ma anche il gradimento come premier di un futuro governo.
Non è un caso che l’ex capo di stato maggiore dell’esercito – uno dei più apprezzati – abbia sparigliato le carte dell’attuale governo di emergenza retto da Netanyahu, di cui è ministro del gabinetto di guerra, proponendo ieri di andare al voto anticipato a settembre.
Uno strappo inusuale per un leader entrato in politica quasi in punta di piedi ma molto cresciuto nel frattempo. Né sembra averlo bruciato il fatto di aver ceduto in passato proprio a Netanyahu, di cui è stato ministro della difesa e anche “premier alternato”, mai entrato tuttavia in carica per lo scioglimento anticipato della Knesset. Né che abbia deciso – a guerra iniziata – di entrare nel governo di Netanyahu in nome della difesa della patria a differenza di Yair Lapid, l’altro leader per eccellenza dell’opposizione.
In base agli ultimi sondaggi disponibili, se Gantz guidasse l’attuale opposizione al governo Netanyahu avrebbe 76 seggi su 120 contro i 44 della coalizione di destra del premier. Un distacco di 32 rappresentanti che non si registra da decenni nella politica israeliana, abituata oramai quasi sempre a maggioranze per lo più striminzite. Il suo partito, Unità nazionale, sarebbe la prima forza del paese, con 39 seggi contro i 16 del Likud del premier, più del doppio.
Ma non è solo il dato elettorale a fare premio: in un paese in cui l’esercito è un’istituzione sacra, un ex capo di stato maggiore come Gantz è percepito da molti come affidabile per la sicurezza del paese, evidentemente più di Netanyahu. Inoltre Gantz – e questo non certo non guasta nelle attuali macerie delle relazioni tra Israele e gli Usa – gode di solidi legami con gli Stati Uniti, costruiti anche negli anni da capo dell’esercito.
Anche se nella guerra contro Hamas non ha esitazioni e condivide la necessità di entrare a Rafah, Gantz si è opposto con grande determinazione, anche nelle piazze, alla contestatissima legge di riforma giudiziaria di Netanyahu, avversata dall’amministrazione del presidente statunitense Joe Biden. E questo è rimasto agli atti.
Un recente sondaggio gli affida il 50% del favore popolare come premier contro il 31% di Netanyahu. Eppure anche lui deve guardarsi da avversari che stanno crescendo. Tra questi l’attuale ministro della difesa Yoav Gallant, pure lui ex capo di stato maggiore. Uomo di apparato della difesa, Gallant è del Likud ma ha saputo dire di no a Netanyahu che, dopo averlo licenziato, è stato costretto a riprenderlo come ministro. Ora guida la guerra e ha mantenuto rapporti stretti e in qualche modo distesi con gli americani. Non a caso il 40% degli israeliani lo porta in palmo di mano come ministro. (swissinfo.ch)
Molti giudizi tendono a scaricare su Netanyahu le responsabilità della dissennata reazione israeliana all’attacco di chiaro stampo terroristico di Hamas. Evidentemente non è molto popolare, ma l’opposizione con cui deve fare i conti non è molto lontana dalla sua mentalità e dalla sua impostazione dei rapporti con i palestinesi. A Netanyahu gli israeliani preferirebbero Gantz, perché più deciso e competente in materia bellica e più immanicato con gli Usa. Di moderazione nel conflitto in atto e di diverse prospettive di convivenza con i palestinesi neppure l’aria.
Sembra quindi che la politica sia stabilmente orientata all’autodifesa intransigente e violenta e che sia perfettamente in linea con i capi religiosi assai potenti ed incidenti. Capisco quindi anche le titubanze delle élite culturali israeliane residenti all’estero. Gli ebrei stanno rinchiudendosi nel loro bozzolo da cui però non uscirà mai una farfalla portatrice di pacifica convivenza con i palestinesi in particolare e con gli arabi in generale. Le pur apprezzabili e ammirevoli posizioni dei pochi dissidenti peraltro fuori patria sono autentiche noci nel vuoto sacco della pace.
Si può capire, ma non giustificare la virulenta posizione israeliana: il fantasma della shoah li condiziona e li orienta verso posizioni di assoluta e intransigente belligeranza verso chi osa mettere in discussione la loro invadente presenza. Se il tragico passato dell’olocausto incallisce Israele in una logica di guerra, l’antisemitismo rischia di trovare nuovi appigli per riesplodere disgraziatamente. Urge uscire da questo folle circolo vizioso.
Come, se gli Usa non riescono a influire minimamente su Israele, se l’Europa non è in grado di far sentire nei fatti una seppur minima critica al comportamento israeliano, se il mondo sta a guardare nonostante le prese di posizione dell’Onu e della Corte penale internazionale.
Joe Biden si sta giocando il voto dei giovani che chiedono un diverso approccio americano alla questione palestinese: i giovani non andranno certamente a votare Trump, ma potrebbe bastare una loro astensione, aizzata dall’insofferenza verso le proteste universitarie, a far pendere la bilancia dalla parte del delinquente in pectore.
Possibile che non si capisca che la macelleria palestinese rischia di trascinare il mondo in un vero e proprio conflitto medio-orientale se non addirittura mondiale. L’effetto dei crimini di Hamas non può scaricarsi in una guerra totale.
Le opinioni pubbliche occidentali sembrano molto critiche verso Israele, ma i governanti occidentali non ne tengono conto: il populismo deve essere funzionale alla guerra, mai alla pace. Un mio carissimo amico si e mi pone l’interessante interrogativo su cosa farebbero oggi il mahatma Ghandi e il folle santo Giorgio La Pira. Non saprei, ma certamente prenderebbero qualche iniziativa: preghiera e digiuno erano le loro armi. In molti scuotevano e scuoterebbero la testa. Costoro però abbiano l’umiltà di ammettere che non si può fare molto di più. Si potrebbe scendere in piazza a protestare: hanno il coraggio di farlo solo gli studenti di tutto il mondo, che si prendono solenni manganellate. Ma dov’è la politica? Lasciamo perdere…