Dietro l’indagine a carico del presidente della Liguria Toti ci sta un problema politico grande come una casa. Non mi riferisco al pur pertinente dilemma “dimissioni sì-dimissioni no”, ma alla ben più consistente questione inerente al rapporto fra politica e affari.
Giovanni Toti sostiene non tanto di non aver percepito liberalità (?) da imprenditori e affaristi, ma di averle regolarmente dichiarate e rese pubbliche come prevede la normativa in materia. Il suo ragionamento difensivo è questo: se questi rapporti finanziari si svolgevano alla luce del sole, significa che non potevano nascondere niente di losco e di illecito. Il discorso ha una sua rilevanza che però, sul piano giuridico, non può andare oltre un elemento difensivo anche se non decisivo. Poteva infatti comunque avvenire lo scambio fra dazioni e favori: questa sembra essere la tesi che sottende le indagini e i capi d’imputazione.
Al di là del fatto se possano o meno essere giustificazioni plausibili, rimane in ogni modo il dato politico di un governatore di regione che si fa aiutare in campagna elettorale e nella sua attività propagandistica da personaggi portatori di precisi interessi economici e potenzialmente richiedenti favori e protezioni. In questo caso salta l’autonomia della politica che diventa più o meno ostaggio dell’affarismo imperante e condizionante. Il lobbismo diventa avvolgente, preciso e concreto.
Faccio un rapido ma eticamente sensibile richiamo alla mia esperienza politica. Al mio indiscusso leader, il senatore parmense Carlo Buzzi, qualche suo “amico di corrente” (ebbi infatti per diversi anni l’opportunità’ di partecipare al comitato di coordinamento della sinistra D.C. parmense di “Forze Nuove”) rimproverava di non tenere rapporti lobbistici con gli ambienti confindustriali parmensi: Buzzi rispondeva che non aveva mai rifiutato il dialogo a nessuno, ma da qui ad instaurare rapporti preferenziali o cose del genere… Atteggiamenti che qualcuno definiva esagerati, puritani, ma che io, molto modestamente, giudico più che giusti anche se gli crearono rischi di emarginazione, di poca considerazione sui media locali etc. Certamente Buzzi non era interlocutore dei cosiddetti poteri forti, a nessun livello.
Chi fa politica deve essere attento ad evitare compromissioni di qualsiasi tipo col mondo degli affari, pena il coinvolgimento, magari anche involontario, in questioni poco trasparenti o addirittura censurabili. Non mi interessano tanto gli aspetti giudiziari, peraltro importanti e delicati, ma la credibilità della politica nei confronti dei cittadini-elettori. Credo che non sia l’unica ragione del disamore elettorale, ma certamente sul fenomeno dell’astensione pesa largamente questa sfiducia indotta dal miscuglio politica-affari, che sta diventando anche l’esagerato e per certi versi qualunquistico motivo dell’allontanamento dei cittadini dai partiti politici.
D’altra parte, come ho più volte detto e scritto, è da considerare più qualunquista il cittadino schifato dalle compromissioni dei politici con gli affari oppure un esponente politico che nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali cade nell’equivoco e clamoroso rapporto fra interessi pubblici e privati?
Non ha importanza decisiva se, come spesso è accaduto, le inchieste giudiziarie non hanno portato a conclusioni rilevanti: mi fa piacere per gli interessati, anche perché non provo alcun gusto a vedere i politici in galera. Resta la realtà di una politica molto invischiata nell’affarismo: questa è almeno l’idea che si fa il cittadino, messo peraltro di fronte al bivio, che da una parte porta al disinteresse e alla conseguente supina accettazione del tran-tran del così fan tutti e, dall’altra parte, al rifiuto della politica, anticamera pericolosa di sbocchi anti-democratici.
Questo mi sembra il nodo politico, che viene prima e dopo le inchieste (dovrebbero essere più insistenti e meno episodiche), i processi (dovrebbero arrivare in tempi stretti), le dimissioni (non risolverebbero, ma aiuterebbero almeno a fare un po’ di chiarezza), le testarde resistenze (servono solo ad aumentare i sospetti), le speculazioni (sono autentiche manciate di fango sulla politica) , i garantismi e i giustizialismi a corrente alternata (peggio che andar di notte…), le polemiche (servono soltanto a fare deleteria confusione), le accuse di ingerenza alla magistratura (incredibili se provengono addirittura da un ministro della Giustizia), lo sciacallaggio mediatico (il tritacarne moderno che costituisce un perfetto assist al qualunquismo), le gogne populiste (il capro espiatorio non è mai servito ad eliminare i peccati), le difese d’ufficio (lasciano il tempo che trovano), le sconcertanti diatribe di piccolo cabotaggio (un modo per sollevare polveroni funzionali al sistema).
La risposta sta nella capacità del sistema partitico di auto-emendarsi: la democrazia non prevede alternative (i movimentismi dell’antipolitica stanno in poco posto), non consente scorciatoie (il premierato butta via il bambino assieme all’acqua sporca), non permette la dicotomia fra istituzioni e cittadini, chiede un cambio di passo e un confronto sulla riscoperta delle basi su cui poggia (partendo dal dettato costituzionale).