Ricordo come un autorevole amministratore di Enti Pubblici, in una interessante intervista, sollevasse parecchi anni or sono non pochi dubbi sulla privatizzazione dei servizi, sostenendo nostalgicamente come un tempo il sindaco sollevando la cornetta del telefono potesse intervenire sulla gestione di questi servizi essenziali per il cittadino.
La privatizzazione dei servizi pubblici è storicamente motivata da esigenze di efficienza economica e di contenimento della spesa pubblica. Volendo estremizzare il discorso dell’osservatorio a posteriori, mentre l’utente non vede l’efficienza, i bilanci pubblici si sono alleggeriti scaricando i costi sulle aziende appaltatrici, che, a loro volta, non hanno garantito l’efficienza sperata e hanno sacrificato economicamente e organizzativamente le condizioni dei lavoratori al fine di quadrare i magri bilanci conseguenti alle gare d’appalto vinte a condizioni molto risicate.
I pubblici poteri non sono in grado di garantire il controllo delle situazioni gestionali, le aziende private sono vittime del mercato e per sopravvivere violano spesso le regole riguardanti l’inquadramento economico-normativo dei lavoratori e la loro sicurezza. Su tutto incombe la logica del profitto: questa è la base etica che sottende, senza limiti e senza ritegno alcuno, alle anomalie di un sistema-Saturno che finisce col divorare i propri figli.
Se questa logica è difficile da combattere nel nostro sistema capitalistico inteso in senso lato, l’ente pubblico non può e non deve perseguirla per interposta persona. Un circolo vizioso in cui lasciano le penne molti lavoratori, l’anello debole di una catena che oltre tutto tende sempre più a irrigidirsi e irregimentarsi in conseguenza delle crescenti ristrettezze dei bilanci pubblici, della concorrenza in un mercato cannibalizzato e di un governo a dir poco rinunciatario sul piano dei rapporti sociali.
Questa è la forse semplicistica analisi sistemica in cui mi sento di collocare il dramma delle morti e degli infortuni sul lavoro, che sta assumendo dimensioni impressionanti e inquietanti soprattutto nel fitto sottobosco degli appalti al massimo ribasso e a cascata. Qui il sistema si tinge particolarmente di politico ed è tale da coinvolgere persino una sorta di auto-omertà, vale a dire il tacito e forzoso protagonismo passivo dei lavoratori, condizionati dall’esigenza di sbarcare comunque il lunario e di sorvolare masochisticamente sui propri rischi sperando magari nella buona sorte.
Dalla parte pubblica, con la scusa della sburocratizzazione e del risparmio di risorse, si tende ad accentuare il sistema degli appalti e a favorirne, direttamente o indirettamente, gli aspetti più rischiosi e incontrollabili. Nutro seri dubbi che la situazione, come al solito, possa essere affrontata partendo dalla fine del ciclo, vale a dire dai controlli da parte degli organi ispettivi o addirittura dal sistema sanzionatorio a carico di chi non rispetta le norme anti-infortunistiche. È la solita illusione di riuscire a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. Tutto serve, ma se non si comincia dalla disfunzione e dall’inequità del sistema, sarà molto difficile fermare l’autentica emorragia delle morti sul lavoro.
Mi si dirà che non serve partire dai massimi sistemi, che non si può tornare indietro nella storia e che bisogna pragmaticamente affrontare le situazioni, palleggiandole fra la fatalità degli eventi, la ricerca delle responsabilità a livello giudiziario, la punizione esemplare dei colpevoli di comportamenti scorretti e il controllo preventivo che individui le clamorose punte di irregolarità.
Per il poco di esperienza professionale che mi ritrovo non credo sia sufficiente potenziare il sistema dei controlli che finiscono col burocratizzare l’ambaradan e creare una pletora di obblighi più o meno formali in cui guazza il disordine sostanziale. Ancor meno fiducia nutro nella criminalizzazione delle aziende e degli imprenditori, anche se c’è sicuramente annidato nel sistema un andazzo criminal-mafioso che incrocia anche ed in modo significativo il fenomeno migratorio.
Non ci si può affidare agli ispettori del lavoro e ai giudici, aspettando da essi il miracolo del lavoro sicuro. Il governo, costi quel che costi, può e deve rimettere ordine nel sistema. La sinistra politica deve porre questo enorme problema in assoluta priorità, riscoprendo la propria capacità di riprogettare un sistema economico-sociale moderno, ma equo e solidale. Su questi piani si gioca e si misura il riformismo della sinistra. Il sindacato deve fare ammenda di scelte sbagliate a livello corporativo e salariale e puntare la sua lotta sull’appassionata, prioritaria e intransigente difesa del lavoro.
Si tratta di un tema basilare su cui riprendere il discorso della concertazione di ciampiana memoria, abbandonando lo scontro fra opposte demagogie, la tendenza alla ineluttabilità del fenomeno, gli economicismi datati, gli utopismi fragili e i protagonismi assurdi. Se è vero come è vero, che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, mettiamoci al lavoro per rifondare la Repubblica sul lavoro e non sull’autonomia differenziata per fare un piacere a Salvini e c. e sul premierato per fare un piacere a Meloni senza c.