L’attuale situazione italiana dell’informazione è assai compromessa: siamo schiacciati tra l’invadenza governativa (come non si ricorda a memoria d’uomo), l’insofferenza alle critiche (come succede nei regimi e nei pre-regimi), la smobilitazione strisciante del sistema pubblico (Rai ridotta senza alcun ritegno alcuno a cassa di risonanza del potere politico), l’omologazione opportunistica al potere (bisogna pur vivere…), la costrizione a bere l’amaro calice della narrazione ad opera del montante regime (e la chiamano libera informazione).
A questa penosa deriva va aggiunto uno dei difetti della nostra società, da ascrivere al pressapochismo culturale se non all’ignoranza petulante di quanti parlano dentro i microfoni, vale a dire la sistematizzazione dei fatti banali e precari.
Morale della favola, anche ammesso e non concesso che si possa accedere in qualche modo, a spizzichi e bocconi, ad una informazione degna di tale nome, ci si imbatte in contenuti comunque fuorvianti e paralizzanti.
Se posso confessare una mia spregiudicata opinione, devo ammettere di nutrire poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (scienziati?): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.
Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coj che all’ostarìa con un pcon äd gèss in simma la tävla i mètton a pòst tùtt; po’ set ve a veddor a ca sòvva i n’en gnan bon äd fär un o con un bicér…”
Forse sono stato poco “complimentoso”, ma un po’ di verità in quel che ho detto c’è, eccome, e mi serve per sviluppare brevemente il discorso da cui sono partito: siamo schiavi, soprattutto a livello mediatico, della sistematizzazione del precario, vale a dire dell’inganno consistente, per dirla brutalmente, nel farci credere che “gli asini volano”.
Un primo eclatante esempio lo prendo dai commenti calcistici che inondano le reti televisive e radiofoniche, soprattutto nei pre, post e durante-partita o in sostituzione della partita stessa (vale per la Rai che non ci fa vedere in diretta il calcio giocato per risparmiare, ma che ci somministra quello (s)parlato, spendendo un patrimonio in compensi a cronisti e commentatori).
Ogni turno di campionato comporta l’elaborazione sistematica di una teoria calcistica fondata sulla vittoria di una squadra o sulla prestazione di un calciatore, che viene puntualmente smentita nella partita successiva. Come se niente fosse, si elabora una nuova teoria che si rivela infondata e via di questo passo. Fino a qualche settimana fa Maurizio Sarri era un grande allenatore, oggi è diventato un buono a nulla da sostituire per disperazione.
Non si vuole capire e ammettere che il calcio è bello perché è vario e imprevedibile, ma guai a considerarlo tale: comporterebbe la disoccupazione o il riciclaggio di frotte di commentatori costretti a cambiare mestiere.
È così anche in politica. Prendo l’esempio dai fatti elettorali di questo periodo. Le elezioni regionali della Sardegna hanno innescato la teoria della battibilità del centro destra e della competitività del centro-sinistra: discorso puntualmente smentito a distanza di pochi giorni. Come se niente fosse, dopo i risultati delle elezioni in Abruzzo, il centro-destra è tornato invincibile e il centro-sinistra è ritornato una sconclusionata accozzaglia di partiti senza meta.
Voglio però affondare ulteriormente il coltello nella piaga. Forza Italia, prima di queste due tornate elettorali era considerato come la vedova inconsolabile di Silvio Berlusconi, un partito senza leader e senza spina dorsale con inarrestabile calo di consensi: il servo sciocco di Giorgia Meloni capace di mettersi in tasca Antonio Tajani e di usarlo come uno straccio per pulirsi le scarpe. Ebbene, in Abruzzo Forza Italia ha aumentato i voti rubandoli (a detta dei bene informati) alla Lega per decenza elettorale, al M5S per fuga di alcuni dirigenti, addirittura al partito democratico per insofferenza nei confronti dell’estremismo schleiniano (non ci posso credere). Ed ecco che questo partitino è diventato improvvisamente la casa dei moderati, la forza politica centrale capace di togliere consensi alla destra e alla sinistra, dopo avere elaborato il lutto ed essersi rilanciata intorno al silenzioso carisma di Tajani.
Non so cosa succederà dopo le prossime elezioni europee, magari Forza Italia ritornerà a percentuali da prefisso telefonico, ma intanto si è parlato a vanvera e qualcuno magari ci avrà anche creduto.
Molto più grave e cruenta è la narrazione bellicista che ci viene propinata: la inevitabilità della guerra in un gioco perverso di azioni e reazioni come se lo sbocco finale fosse l’equilibrio geopolitico e non il rischio di catastrofe universale. Alla invasione si deve rispondere per forza e per sempre con l’impiego di tutte le armi possibili e immaginabili; alle provocazioni bisogna rispondere con vendette senza scrupoli e senza razionalità. Siamo alle prese con la banalizzazione della guerra, che non è da esorcizzare come il male dei mali, ma da accettare come il male minore.
Se la sociologia è l’elaborazione sistematica dell’ovvio, nei commenti politici siamo alla sistematica teorizzazione del banale e alla sistematica stabilizzazione del precario. Se questa si chiama informazione… Non stupiamoci se la gente non ci si raccapezza più e non va a votare, se i tifosi si sfogano pretendendo che la loro squadra vinca e giochi bene (e chi perde e gioca male ci dovrà pur essere, così come chi governa male e fa male l’opposizione). Troppe futili chiacchiere e poche serie riflessioni. Dario Fo diceva che “il pubblico di oggi è drogato di banalità”.
Le eccezioni confermano la regola ed anche le eccezioni pretendono magari di diventare regola. Varrebbe forse la pena di ignorare i giornali e spegnere i televisori. Finiremmo inevitabilmente nei social. Dalla padella alla brace. Evviva la democrazia informata!