Un biberon con un po’ di latte su un fianco, una copertina di lana che lo avvolgeva fino a far spuntare gli occhi e poco più, uno zainetto con dentro alcuni abiti e i pannolini puliti. E un sorriso burlone che ha conquistato tutti nel pronto soccorso di Aprilia (Latina). L’ha trovato tranquillo nel suo passeggino, accanto ad alcune sedie vuote, nella sala d’attesa dell’ospedale Sara Fanella, l’infermiera del 118 che venerdì sera intorno alle 19.30 entrando con un paziente ha notato quel passeggino abbandonato. E ora nella gara di solidarietà che è scattata, la diocesi di Albano scende in campo e si offre per dare aiuto psicologico ed economico a questa madre perché «saremo felici che questa storia avesse un esito positivo, con il ricongiungimento del bimbo a sua madre. Noi siamo pronti con la Caritas e il consultorio familiare diocesano a fare tutto il necessario», assicura il vescovo di Albano monsignor Vincenzo Viva. (dal quotidiano “Avvenire” – Alessia Guerrieri)
Saluto con ammirazione l’iniziativa della diocesi di Albano, perché purtroppo anche le istituzioni ecclesiali, dal Vaticano alle parrocchie, in materia di aiuto ai bisognosi non sono dei fulmini di solidarietà, spesso si nascondono dietro la Caritas quale ente delegato al “lavoro sporco” di occuparsi dei poveri cristi. Mi torna alla mente come don Raffaele Dagnino, uno storico prete della nostra città, a chi gli offriva danaro per i poveri qualificandoli con l’aggettivo possessivo “suoi” (di don Dagnino appunto), rispondesse stizzito e con genuino spirito evangelico: «Bada che i poveri sono anche “tuoi” e quindi consegna loro il tuo aiuto direttamente, guardandoli negli occhi!». Sono cambiate le situazioni, ma non è cambiato l’atteggiamento di chi vuole sgravarsi la coscienza a basso costo.
Esiste purtroppo anche il rischio di fare del volontariato un mestiere, di imprigionare anche la carità nei lacci della spersonalizzante routine. Non accuse, ma preoccupazioni. Quando vedo, a livello Caritas ed altri enti simili, affiorare comportamenti freddi e distaccati, schemi organizzativi piuttosto burocratici, procedure poco accoglienti e molto anonime, mi ricordo di un episodio riconducibile al caro amico Don Scaccaglia. Poco prima che iniziasse una messa domenicale entrò in chiesa un immigrato accolto nella comunità di S. Cristina, con passo malfermo e zoppicante in quanto portatore di handicap in aggiunta alla sua già difficile situazione esistenziale: era reduce dall’aver bevuto un caffè al bar. Un operatore Caritas, occasionalmente presente alla scena, rimproverò con una certa violenza il poveraccio reo di avere trascurato i viveri della casa di accoglienza per spendere danaro al bar. Don Scaccaglia non intervenne. Mi si accostò e disse: «Sarà della Caritas, ma questa non è caritas…questo poveretto va al bar perché tenta disperatamente di sentirsi uguale agli altri…noi andiamo al bar e perché lui non ci deve andare…oltretutto è un modo per socializzare ed integrarsi con noi…». Il cuore prima dell’ostacolo!
Un secondo punto critico sta nel ritenere che per la fede cristiana sia sufficiente la solidarietà. Credo che il concetto di carità sia molto più grande e complesso. In un certo senso la solidarietà è a valle, mentre occorrerebbe intervenire a monte, vale a dire sulla giustizia sociale. E qui viene il bello…
Dom Helder Camara, vescovo brasiliano, diceva così: «Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista».
Qualcuno penserà che, da impenitente sessantottino, la voglia buttare in politica. No, anzi forse sì.
Durante la crisi di una grossa fabbrica fiorentina (che riuscirà a salvare), Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, parteggia per i 1700 operai a rischio di licenziamento. Fa intervenire lo Stato e si rivolge agli industriali, sottolineando insieme al principio di solidarietà, il principio di fraternità; un tema ripreso da papa Paolo VI nella Octogesima adveniens (n. 46).
Papa Francesco ai giornalisti durante il volo di ritorno dall’America Latina disse: «Sostenendo i movimenti popolari la Chiesa non fa un’opzione per l’anarchia. Io sono molto vicino a queste realtà perché è un fenomeno di tutto il mondo, lo troviamo anche in Oriente, nelle Filippine, in India, in Thailandia. Sono movimenti che si organizzano tra loro non solo per fare una protesta, ma per andare avanti e poter vivere, e sono movimenti che hanno forza e non si sentono rappresentati dai sindacati perché dicono che i sindacati sono una corporazione e non lottano per i diritti dei poveri. La Chiesa non può essere indifferente, ha una dottrina sociale e dialoga con questi movimenti».
Non intendo nel modo più assoluto introdurre uno stucchevole enigma (l’uovo o la gallina…), se cioè venga prima la giustizia sociale o la solidarietà fraterna. Nel lontano settembre del 2014 parafrasando il contenuto di una stupenda conferenza tenuta da don Luigi Ciotti nella chiesa parmense di Santa Cristina, invitato dall’allora parroco don Luciano Scaccaglia, scrivevo: “Bisogna prendere atto a malincuore di un contesto difficile in cui domina la “fragilizzazione” dei servizi alla persona, conseguenza, anche ma non solo, della diminuzione di risorse a disposizione dell’ente pubblico: occorre però dire un deciso “no” al ripiegamento sulla mera azione di “ortopedia sociale” per puntare sulle imprescindibili relazioni con le persone in difficoltà. Esiste una grande contraddizione nella nostra società: la sproporzione tra solidarietà e giustizia, valori indivisibili quali facce della stessa medaglia: no alla solidarietà che non vuole rimuovere le disuguaglianze rischiando di esserne involontario e funzionale supporto. Prima viene la giustizia, prima i diritti e poi la solidarietà, prioritario è il perseguimento dell’ossatura fondamentale: “leggi giuste e politiche giuste”, democrazia con i suoi doni della giustizia e della dignità umana. Ma la terza gamba della democrazia sta nella responsabilità della politica che ha bisogno di onestà più che di novità, delle istituzioni che hanno bisogno di etica, cultura e verità, di ciascun cittadino a tempo pieno e non a intermittenza. Non basta infatti commuoversi, bisogna muoversi, farsi scomodi cercatori di verità, dare alla nostra società “il morso del più”: non è sufficiente non fare il male, bisogna anche evitare di stare a guardare chi lo fa e magari lasciarlo fare.