Esistono due luoghi comuni che si rincorrono nella storia della politica, atti a giustificare l’alternanza e la legittimazione nell’esercizio del potere della destra e della sinistra. Il primo risale alla banalità (?) della vita quotidiana famigliare: quando le cose vanno bene, tutto fa brodo e la destra serve a spartire i benefici, mentre la sinistra serve a imporre i sacrifici quando le cose vanno male. Il secondo, frutto di un concetto opportunistico della politica, riguarda la possibilità di conquistare il potere: la destra trova sempre il modo di compattarsi e di meglio raccogliere i consensi elettorali, mentre la sinistra trova sempre il modo di dividersi e di indispettire gli elettori perdendo in partenza una bella fetta di voti.
L’attuale fase politica sembra metterli entrambi in qualche discussione: le cose infatti in Italia non vanno per niente bene (povertà crescente, salari bloccati, lavoro assente o precario, sanità allo sbando, inflazione galoppante) eppure l’elettorato ha preferito affidarsi alla destra, che non gli impone sacrifici o meglio riserva i sacrifici ai poveri e manda assolti i ricchi; la destra si è presentata unita, ma sta litigando in continuazione al proprio interno, mentre la sinistra comincia a capire di fare muro contro la destra e di provare qualche intesa almeno a livello elettorale.
La recente consultazione elettorale in Sardegna è la timida riprova dello scombussolamento storico rispetto ai due suddetti luoghi comuni: i cittadini hanno preferito la candidata frutto della pur precaria unità a sinistra, credibile quale portatrice di speranza di cambiamento ed hanno bocciato la rissosa continuità della destra e la sua finta compattezza. La Sardegna ha preferito abbandonare le paradigmatiche illusioni di benessere offerte dalla destra e partendo dalla zeppa di problemi ha deciso di affidarsi a chi dà una pur pallida idea di saperli affrontare, si è lanciata nella scommessa di un pur rischioso bagno di concretezza e di competenza.
In Sardegna, anche se non ho il coraggio di sperarlo più di tanto, sono saltati gli schemi di potere della destra e gli schemi ideologici della sinistra. A una destra che ha guardato, fino all’inverosimile, all’ombelico della propria forza populista (il candidato è mio e lo gestisco io) ha fatto riscontro una sinistra che ha guardato verosimilmente alla propria debolezza popolare (il candidato è nostro e speriamo che se la cavi).
Davide ha sconfitto Golia? Sarebbe così bello che non oso nemmeno sperarlo. Giorgia Meloni si è improvvisamente destata dall’allucinogeno sonno del potere: i suoi amici (?) sotto-sotto ci stanno godendo anche se sembrano quei mariti che protestano e confabulano da sotto il letto; agli affezionati e prezzolati media è bastato poco per cominciare a dubitare della sua forza propulsiva; al popolo della destra-destra non rimane che rifugiarsi ancor più nelle nostalgie del passato; all’elettorato occasionale di destra sorge il dubbio atroce di avere commesso un errore (di avere usato troppo la brillantina Meloni).
Gli esponenti vari ed eventuali della sinistra si staranno preoccupando perché dovranno mettere insieme le loro fionde per tentare di abbattere le formidabili armi dell’avversario. Attenti a non fare, dopo la lunga dieta, un’indigestione unitaria a prescindere dai valori e dai problemi: di mancanza di senso tattico si finisce col morire, ma si può morire anche per eccesso di tatticismo. La prova non sta tanto nelle prossime elezioni regionali in Abruzzo, ma in quel che Alessandra Dotte riuscirà a fare. Per votare a destra basta poco, per votare a sinistra occorre molto. Ed ecco rispuntare dalla finestra i luoghi comuni che sembravano usciti dalla porta.