La locuzione quarto potere si riferisce, in sociologia, alla funzione dei mezzi di comunicazione di massa come strumenti della vita democratica, che notoriamente si basa su tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. In Italia il potere legislativo è sempre più indebolito dall’invadenza di quello esecutivo e dalla propria insulsa incapacità a legiferare seriamente. Sul potere giudiziario ci sarebbe da fare un lungo discorso: sinteticamente si può dire che navighi fra gli attacchi della politica e gli attacchi alla politica, fra il rigoroso rispetto delle leggi e la loro interpretazione talora forzata, fra la strenua difesa della propria autonomia e la tentazione di invadere quella altrui. Il potere esecutivo tende di fatto a prevalere nei contenuti, nei modi e nei tempi: la ventilata riforma costituzionale è volta a consacrare questa prevalenza con l’alibi della stabilità di governo e della legittimazione popolare. Il Presidente della Repubblica è il punto di equilibrio fra i vari poteri nel rispetto del dettato costituzionale: è direttamente o indirettamente sotto attacco da parte del governo e delle forze dell’attuale maggioranza. Resiste in modo egregio e inappuntabile. Ma fino a quando?
Nel nostro Paese il quarto potere è poco autonomo e poco incisivo, tende a reggere il moccolo al governo o a sposare acriticamente l’operato della magistratura. La conferenza stampa di inizio anno del premier o della premier come dir si voglia ha messo a confronto il quarto potere con il potere esecutivo. Non doveva essere uno spietato fuoco di fila quello a cui sarebbe stata sottoposta Giorgia Meloni? Invece si è rivelata l’occasione per una passerella consentita da una sfilza di giornalisti, preoccupati molto più della difesa dei loro diritti che non della critica alla diligenza governativa. C’era un clima politicamente correttissimo, tale da configurare una sorta di manfrina: il conformismo imperante ha trovato un’ulteriore conferma.
I giornalisti hanno fatto il loro compitino, hanno recitato la loro particina, hanno legato l’asino dove vuole il padrone. Il padrone ha sfoderato nervi d’acciaio e un becco di ferro nell’eludere sistematicamente le questioni più delicate, nel buttare in “pandana” i problemi più spinosi, nello scavalcare i punti più imbarazzanti. Una manfrina in corrispondenza biunivoca.
Qualcuno dirà che la premier si è destreggiata bene: le domande e le risposte erano note da giorni e infatti mi sono divertito ad ascoltarle. Non ne hanno sbagliato una. Tutto come da copione. Buon giorno, buon anno, mi scusi, grazie… Sintomo di civiltà democratica? No, dimostrazione di vacuità anti-democratica per non dire aria di regime.
Da una parte nessun accento minimamente autocritico, nessun dubbio, nessuna ammissione di colpa o di errore; dall’altra parte solo subdole sviolinate o domande di maniera affogate nella preoccupazione di non disturbare troppo il manovratore (non si sa mai…).
Durante la conferenza alcune reti televisive mandavano i sottotitoli: una penosa sequela di luoghi comuni, di buone intenzioni e di aleatori propositi. Lo specchio fedele del nulla culturale e politico della nostra politica e di chi la dovrebbe raccontare. Roba da vergognarsi di essere italiano.
Se non ricordo male all’ingegner Carlo De Benedetti, allorquando cominciava a profilarsi l’eventualità di un successo elettorale della destra di Giorgia Meloni, fu chiesta una previsione al riguardo. Partì riconoscendo alla Meloni una certa autorevolezza a livello di leadership di partito, ma poi si salvò in corner, prevedendo per il suo premierato una sorta di barriera preclusiva a livello europeo. La prima profezia è stata rispettata seppure in senso minimalista: quanti contraddizioni etico-politiche in Fratelli d’Italia, quanti guai nei rapporti con i ministri, quanta differenza di visione nei partiti della maggioranza di destra-destra. La seconda profezia (sic!) è stata cannata! In Europa c’è posto anche per la signora Cocomeri. È detto tutto.
“Ogni popolo ha il governo che si merita” è molto più di un semplice proverbio. Sembra quasi una sentenza, un modo di dire che è entrato nella dialettica quotidiana. La frase di Joseph De Maistre ha una grande attualità, anche se risale intorno ai primi anni dell’800. In realtà si potrebbe andare anche più indietro e risalire addirittura ad Aristotele, quindi ben 2500 anni fa. Dall’Europa fino all’America, si trovano scritti anche di Winston Churchill su un concetto simile. In effetti nel corso della storia abbiamo visto come le società si sono sempre di più emancipate, scegliendo autonomamente quale fosse la corrente politica più idonea per farsi rappresentare. Per questo motivo il proverbio è rimbalzato sulla bocca di tutti, diventando virale. Purtroppo la spinta partecipativa popolare si è via- via affievolita fino a scantonare nella superficialità qualunquistica o nella egoistica rassegnazione.
Durante la performance televisiva di Giorgia Meloni mi sono chiesto: possibile che il popolo italiano meriti un simile premier, un simile governo e, diciamolo pure, un simile giornalismo (non di inchiesta, non di informazione oggettiva, ma di leccata)? Gli italiani hanno impiegato vent’anni per metabolizzare in modo cruento il disastro del fascismo, trent’anni per approcciare criticamente il berlusconismo (che non è ancora finito…). Quanto impiegheranno a sbarazzarsi del melonismo? Temo di non uscirne vivo!