La giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2023 è stata indubbiamente un’occasione per sensibilizzare la gente su un problema gravissimo e delicatissimo (i superlativi non sono stucchevoli). Non pensiamo però di risolvere in questo modo una questione così complessa dal punto di vista storico, culturale, psicologico e sociale. Discutere, confrontarsi, criticare e proporre è comunque sempre utile. Ben vengano quindi queste occasioni anche se non dobbiamo enfatizzarle, farne uno sfogo conseguente ad eventi drammatici e men che meno strumentalizzarle per ripulirsi la coscienza o per scaricare le colpe sugli altri.
Credo che siano state invece inopportune le manifestazioni di piazza perché non si addicono a problemi tanto impegnativi e complicati. Per scendere in piazza occorre avere un obiettivo preciso a cui puntare, una istituzione specifica contro cui protestare, dei provvedimenti da chiedere, altrimenti prevale purtroppo la tentazione di farne occasione di generica contrapposizione contro tutto e tutti oppure di speculazione politica e comunque di contrapposizioni schematiche.
Ho partecipato in epoche diverse a manifestazioni unitarie e ho sempre registrato l’infantile tendenza di certe frange estremiste a cercare il nemico a tutti i costi, allargando i discorsi e tranciando giudizi provocatori e superficiali. La mobilitazione di piazza è un’opportunità democratica molto importante, ma è uno strumento da usare con intelligenza e prudenza.
Cosa è successo sabato 25 novembre? Una zeppa piazzaiola in cui la protesta si è impropriamente allargata da quella contro la violenza sulle donne a quella contro il comportamento israeliano nella guerra contro l’attacco di Hamas. Triplo errore: quello di confusione tattica fra un tema e l’altro, quello di culturale unilateralismo e quello di scatenare equivoci. Non si deve vedere solo la pur condannabile reazione israeliana, ma bisogna sforzarsi di inquadrarla in un contesto drammatico scatenato dal terrorismo. Non si può creare confusione tra le legittime aspirazioni del popolo palestinese e l’incredibile appoggio ad Hamas. Così facendo non si fanno passi verso la pace, ma si incalliscono le situazioni di guerra. Così come rifiuto la semplicistica e demenziale squalifica di tutti coloro che hanno a cuore la sorte della Palestina considerandoli filo-terroristi (era ed è così anche per chi osava e osa criticare la strategia difensiva bellicista dell’Ucraina, immediatamente catalogato come putiniano), non accetto la volgare assimilazione dell’amicizia con gli ebrei a mera accettazione delle ingiustizie patite dai palestinesi. Questo è tifo di politica internazionale!
Nel merito del discorso della violenza alle donne si è poi scatenata una esecrabile caccia indiscriminata e violenta all’associazionismo cattolico più integralista assimilato sbrigativamente e pretestuosamente al bigottismo post-patriarcale (pur presente nella nostra società), dando oltre tutto un ottimo assist a chi ha interesse a squalificare le proteste ed a chi teme comunque la piazza a prescindere dalla giustezza o meno delle sue rivendicazioni.
Sono trascorsi ormai più di 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel commettere il più grande massacro nella storia di Israele, si è macchiato anche di gravissimi crimini e violenze sessuali nei confronti delle donne. Israeliane soprattutto. Ma non solo israeliane: sono, infatti, 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi che sono stati rapiti nella Striscia.
Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse dal gruppo terrorista nei confronti delle donne. E questo anche se il gruppo Hamas abbia fornito prove fin troppo evidenti delle atrocità di cui si è reso protagonista pubblicando in tempo reale i filmati delle giovani rapite, fatte sfilare per Gaza picchiate, ferite, umiliate, violentate, molte con i pantaloni insanguinati. (dal quotidiano “Avvenire” – Fiammetta Martegani)
Se si voleva operare un parallelismo tra discorso della violenza alle donne e conflitto tra Israele e Hamas, il punto d’attacco ci poteva essere, ma non lo si è cercato finendo con lo snocciolare squalificanti doppiopesismi a livello di giudizio e inaccettabili polpettoni protestatari.
Alla fine si è ottenuta una deviazione dal tema fondamentale della violenza sulle donne per ripiegare superficialmente sullo scontro tra ebrei e palestinesi nonché sullo scontro tra femminismo ed anti-femminismo. Da tempo auspico manifestazioni di piazza sui tanti temi all’ordine del giorno: il silenzio è pericoloso. Gridare a vanvera però è ugualmente pericoloso e rischioso, perché si fanno proprio gli interessi delle forze che temono la protesta.
Un certo tipo di estremismo non ha ancora imparato la lezione: gridare ad un lupo indistinto e generale non serve a combattere i veri lupi. Dico di più. Ai tempi del terrorismo rosso vi era chi sul piano culturale teorizzava il “né con lo Stato né con le Br”. Stiamo ben attenti a non parafrasare il motto trasformandolo in “né con gli ebrei né con il terrorismo islamico” oppure “guerra ai maschi e viva le donne”. Se fosse così semplice… Cerchiamo di essere seri. Lo dobbiamo alle donne, ai palestinesi, agli ebrei e a tutti coloro che soffrono.