“Spero di avere il coraggio di dire tutto quello che voglio dire”. Così si è espresso papa Francesco con i circa 70 giornalisti che lo hanno accompagnato nel suo 44° viaggio apostolico internazionale a Marsiglia. Stando alle cronache mi sembra che il pontefice non sia stato reticente, ma abbia vuotato, seppure con carità cristiana, il sacco delle sue denunce e dei suoi perentori inviti in materia di immigrazione.
Ho avuto l’impressione che Macron abbia reagito con qualche imbarazzata e superficiale disponibilità, ma senza approfondire il discorso sulle responsabilità passate, presenti e future del suo Paese. Infatti si è rifugiato in una sbrigativa cazzata, dicendo che “l’Europa e la Francia non possono accogliere tutta la miseria del mondo”.
È un discorso che fanno tutti i governanti e (quasi) tutte le persone di scarsa volontà. Il fenomeno migratorio affonda le sue radici nel passato e mette a nudo tutte le colpe storiche del nostro mondo verso il terzo mondo. Qualcuno sostiene che le migrazioni ci sono sempre state per riequilibrare le differenze di vita. Ciò non toglie che sarebbe stato e sarebbe necessario eliminare queste clamorose disuguagliane e inequità. Ogni errore ed omissione dei ricchi trova immediato riscontro nella disperata reazione dei poveri. Se è tardi per rimediare a secolari scelte di sfruttamento, sia almeno l’ora di affrontare la realtà con un minimo di impegno a gestire dignitosamente il fenomeno migratorio.
Durante il viaggio di ritorno da Marsiglia Raphaelle Schapira (France Televisions) ha posto una domanda provocatoriamente realistica a papa Francesco.
“Lei ha iniziato il suo pontificato a Lampedusa, denunciando l’indifferenza. Dieci anni dopo chiede all’Europa di essere solidale. Sono dieci anni che ripete lo stesso messaggio. Vuol dire che lei ha fallito?”
Il papa ha risposto come di seguito.
“Io dirò di no. Dirò che la crescita è andata lentamente. Oggi c’è coscienza del problema migratorio. C’è coscienza. E anche c’è coscienza di come sia arrivata a un punto … come una patata bollente che non si sa come prenderla. Angela Merkel ha detto una volta che si risolve andando in Africa e risolvendo in Africa, alzando il livello dei popoli africani. Ma ci sono stati casi che sono brutti. Casi molto brutti, dove i migranti, come in un ping- pong, sono stati mandati indietro. E si sa che tante volte finiscono nei lager, finiscono peggio di prima. Ho seguito la vita di un ragazzo, Mahmoud, che cercava di uscirne… e alla fine si è impiccato. Non ce l’ha fatta perché non tollerava questa tortura. Io ho detto a voi di leggere quel libro Fratellino, Hermanito. La gente che viene è prima venduta. Poi gli tolgono i soldi. Per pagare, poi gli fanno chiamare al telefono la famiglia perché inviino più soldi. Ma poverini. È una vita terribile. Ho sentito uno che è stato testimone, quando di notte, al momento dell’imbarco, uno ha visto una nave così semplice, senza sicurezza e non voleva imbarcarsi. E… pum pum. Finita la storia. È il regno del terrore. Soffrono non solo perché hanno bisogno di uscire, ma perché è il regno del terrore lì. Sono schiavi. E noi non possiamo senza vedere le cose, mandarli indietro come fossero una pallina da ping pong. No. Per questo torno a dire il principio: i migranti vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati. Se tu non puoi integrarlo nel tuo Paese, accompagnalo e integralo nel suo Paese, ma non lasciarlo nelle mani di questi crudeli trafficanti di persone. Il dramma dei migranti è questo: che noi li mandiamo indietro e cadono nelle mani di questi disgraziati che fanno tanto male. Li vendono, li sfruttano. Quella gente cerca di uscire. Ci sono alcuni gruppi di persone che si dedicano a salvare gente nel mare. Io ho invitato al Sinodo, a partecipare, uno di loro, uno che è il capo di Mediterranea Saving Humans. Loro ti raccontano delle storie terribili. Il mio primo viaggio, come lei ha detto sono andato a Lampedusa. Le cose sono migliorate. Davvero. C’è più coscienza oggi. Allora non si sapeva. Anche non ci dicevano la verità. Ricordo che c’era una receptionist a Santa Marta, etiope, figlia di etiopi. Conosceva la lingua. E seguiva alla tv il mio viaggio. E c’era uno che mi spiegava, un poveretto etiope che mi spiegava le torture e queste cose. E il traduttore – lei mi ha detto – ha detto bugie, ha detto quello che lui non ha detto, ha addolcito la situazione. È difficile avere fiducia. Tanti drammi. Quel giorno che sono stato lì, mi hanno detto, un medico: guarda quella donna. Andava fra i cadaveri vedendo la faccia perché cercava sua figlia, non la aveva trovata. Questi drammi…a noi fa bene prenderli (toccarli con mano). Ci farà più umani e pertanto anche più divini. È una chiamata. Vorrei che fosse come un grido: “Stiamo attenti. Facciamo qualcosa”. La coscienza è cambiata. Davvero. Oggi c’è più coscienza. Non perché ho parlato. Ma perché la gente si è accorta del problema. Ne parlano tanti. È stato il mio primo viaggio, e lì udii una cosa interiore. Io nemmeno sapevo dove era Lampedusa. Ma ho sentito le storie. Ho letto qualcosa e nella preghiera ho sentito: tu devi andare lì. Come se il Signore mi mandava lì, nel mio primo viaggio”.
C’è più coscienza, come dice il papa, o c’è solo più conoscenza? Non diamo la colpa soltanto ai governanti, perché purtroppo sono fedeli interpreti della nostra indifferenza. Non diamo la colpa alla Francia e al suo colonialismo di andata e ritorno; non pensiamo che la Germania voglia scaricare sul suolo italico il surplus di immigrati. Sentiamoci tutti interpellati in prima persona: ognuno ha il suo pezzo di miseria da accogliere a monte o a valle.