Papa Francesco, qualche tempo fa, ha detto: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».
Non credo che questa immagine si attagli all’insistente impostazione della Chiesa proiettata sullo straordinario: giornata dei nonni, giornata della gioventù, tempo di sinodo e via discorrendo. Con tutto il rispetto mi sembra più la configurazione di una “casa per vacanze”, impegnate ed impegnative, ma pur sempre legate più a straordinarie pause di riflessione che a ordinario e quotidiano impegno di testimonianza.
La vita civile, politica e finanche religiosa è tutta puntata sugli eventi straordinari dopo di che “passata la festa, gabbato lo santo”. Chi amministra una città non è preoccupato delle buche nelle strade, delle risse nelle strade, della gente che dorme sotto i ponti, delle bocchette che non tirano, si dedica ai convegni programmatici ed agli eventi culturali. Chi guida la Chiesa ai vari livelli si preoccupa di predicare bene nelle occasioni particolari e si accontenta di razzolare male nel quotidiano.
Purtroppo l’evento straordinario, anche se promosso con le migliori intenzioni, se non è preceduto e seguito dai comportamenti quotidiani ed ordinari, rischia di scadere nella cultura dell’effimero, che lascia tutto com’è. In campo religioso Vittorio Messori, quanto ai giovani, l’ha chiamata “teologia della chitarra”, per gli anziani potremmo introdurre il concetto di “pastorale del liscio”, per la Chiesa intera ipotizzare un “parlarsi addosso coordinato e continuativo” (vedi interminabile cammino sinodale).
È anche un po’ la storia della liturgia ingessata in una vuota ritualità e che andrebbe invece ricondotta alla spontaneità, al coraggio di fondere il sacro con la vita. Tutti assistiamo in televisione ai riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro a Roma, ma anche in giro per il mondo, e ne cogliamo la pesante, oserei dire pedante, spettacolarizzazione, abbiamo la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli (a quando, papa Francesco, una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando il licenziamento degli insopportabili ed impettiti maestri di cerimonie, protagonisti instancabili di un marcamento a uomo del pontefice ovunque celebri una messa?). Poi entriamo in certe chiese periferiche e torniamo a terra, per constatare la routinaria pochezza di liturgie sbrigativamente ed anonimamente finalizzate solo al tagliando di adempimento del precetto festivo. Da una estremità all’altra: dalla vuota enfasi rituale alla banalizzazione precettistica, dalle straordinarie parodie, magari con tanto di indulgenza plenaria, alle ordinarie e routinarie liturgie deducibili in sede di esame di coscienza, dal vuoto, oserei dire ridicolo, formalismo del “su al capél e zo al capél” (se qualcuno non l’avesse intuito mi riferisco alle mitre episcopali ostentate durante le celebrazioni liturgiche) alle messe celebrate alla sans-façon.
Preghiamo pure per i giovani che andranno alla radunata oceanica di Lisbona, per gli anziani vezzeggiati dal papa, per i pellegrini di tutti i santuari sparsi nel mondo, per tutti i cristiani della domenica, affinché rientrati nella quotidianità possano capire che il Vangelo è roba da farsi su le maniche.
C’era una mia carissima zia che, in assoluta controtendenza, andava a messa solo quando era in vacanza (probabilmente condizionata dalla trascinante devozione di mia madre con la quale trascorreva appunto le vacanze estive). Sosteneva però di essere abbastanza assidua nella frequenza ai sacramenti, intendendo scrollarsi di dosso l’immagine di una praticante piuttosto leggera e opportunistica. Venne però la riforma liturgica e durante le prime vacanze successive si recò, assieme a mia madre, a messa nella località di villeggiatura. Incappò, per ironia della sorte, in un sacerdote piuttosto testardo e pignolo, il quale, al momento della comunione, le porse l’ostia consacrata dicendo “Corpus Cristi”, restando in attesa della dovuta risposta, vale a dire “amen”. Mia zia rimase a bocca aperta e non rispose un bel niente. Lui insistette alquanto invitandola espressamente: “Dica amen…dica amen…dica amen”. Niente da fare, si dovette rassegnare a concederle l’ostia senza ottenere il prescritto “amen”. Tornata al posto chiese conto a mia madre, perché non aveva capito niente e le disse: «Insomma, parché an met miga spieghè cmé ‘s fa a fär la comunion?». Mia madre scoprendo l’altarino le rispose: «Cò vót ca vaga a imaginär ch’an tal sev miga, at dis ch’at vè sémpor a mèssa…». Per mia zia la pratica religiosa era un fatto straordinario, anche se era così buona e generosa che il Padre Eterno l’avrà fatta accomodare in paradiso senza bisogno di alcun amen di carattere formale.