Il dito elettorale nelle piaghe politiche

Dopo avere messo avanti le mani per non cadere nel tranello della politicante bagarre post-elettorale, dopo essermi fasciato la testa politica prima di rompermela a contatto con le sbrigative analisi dei pifferai di turno, provo a riflettere sulla base delle indicazioni emergenti dalla recente, parziale ma larga tornata di elezioni amministrative.

Parto dall’astensionismo, che l’ha fatta da padrone. Al logorio della moderna vita democratica (?) dobbiamo aggiungere il continuo calo di credibilità dei partiti, lo sconvolgimento provocato dalla pandemia e lo scombussolamento politico innescato dal governo Draghi.

Siamo sinceri: chi non viene preso da una incontenibile quanto rischiosa sensazione di inutilità del voto? Da una parte abbiamo una società messa a soqquadro a livello di sistema da una situazione di emergenza, che si profila scoordinata e continuativa, dall’altra una classe politica che evidenzia limiti gravissimi e frustranti, dall’altra Draghi col suo strano governo del dottor Jekyll e mister Hyde.

In un simile incrocio per non andare a sbattere si è tentati di rimanere fermi al palo. Chi aveva intrapreso la pur scriteriata via dell’antipolitica proposta dal M5S e dalla Lega si sta inevitabilmente ravvedendo: la sfiducia intercettata da questi movimenti “raccattatutto” è ritornata a galla, si rifugia prevalentemente nell’astensione se non nel voto a casaccio. Nonostante tutto speravo che soprattutto il grillismo potesse costituire un argine al qualunquismo dilagante, invece ha finito con l’accrescerlo e renderlo ancor più disperato.

Al M5S sono rimasti solo gli occhi di Virginia Raggi con cui piangere sul latte versato da Grillo, mentre Giuseppe Conte cerca di rimettere il dentifricio nel tubetto. Alla Lega è rimasto un Salvini anacronistico che ha buttato nella merda populista il prete autonomista e libertario, mentre Giorgetti fa la parte del coccodrillo leghista che piange sul leghismo divorato dal nazionalismo preso a prestito da FdI. Molto più grave la crisi leghista rispetto a quella pentastellata: nei grillini si torna al nulla da cui si è partiti, nei leghisti si cestina il legame territoriale e quel poco di classe dirigente radicato in essa. Il governo Draghi ha messo in crisi gli uni e gli altri enfatizzandone la totale incapacità di iniziativa politica al di là delle sbruffonate del giorno per giorno.

Il centro-destra è dilaniato al punto da rimpiangere amaramente il suo storico federatore; sento levarsi un grido, incredibile ma vero: “aridatece er puzzone!”. Berlusconi sta infatti sentendo puzza di cadavere e si aggira sulla scena milanese per fare una scorpacciata finale delle carcasse destrorse e andare non si sa dove. Il centro-destra non è stato in grado di proporre candidature valide per amministrare i comuni e si è abbandonato al civismo senza numeri (per dirla con Vittorio Sgarbi): ne è uscito con le ossa rotte. Berlusconi lo aveva capito, ma non è stato capace di prendere in mano la situazione: penso sia tardi per lui e per il centro-destra. Sperare in Giorgetti mi sembra la cosiddetta “sperànsa di mäl vestì, ch a faga un bón invèron”.

Il centro-sinistra riesce indubbiamente ad esprimere qualche candidatura interessante e, tutto sommato, prende una boccata d’ossigeno elettorale che dovrebbe servirgli a uscire dall’apnea degli ultimi tempi. Ho ascoltato con attenzione le dichiarazioni un po’ troppo trionfalistiche di Enrico Letta: devo ammettere che è l’unico personaggio sulla scena politica in grado almeno di parlare di politica. Non so se accontentarmi di una caramella succhiata, piegata in una carta colorata piuttosto che rimanere a bocca aperta col rischio di strozzarmi con caramelle che vanno di traverso: “mej lu che niént da sén’na”.