Amaro Lucano, il tocco della (in)giustizia italiana

La sconvolgente vicenda giudiziaria dell’ex sindaco di Riace Domenico Lucano mi costringe a tornare su quanto affermato molto tempo fa da Nando Dalla Chiesa con riferimento all’eroica testimonianza di suo padre: “Le nostre burocrazie sono micidiali”. Sì, sono burocrazie strutturali e mentali che osano mettersi di traverso contro chi vorrebbe cambiare le cose, isolandolo e costringendolo a battaglie incredibili, dove il nemico è l’ingiustizia, ma anche e contemporaneamente chi non vuole il cambiamento.

L’ex sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato condannato a 13 anni e due mesi di reclusione nel processo “Xenia”, svoltosi a Locri, in Tribunale, sui presunti illeciti nella gestione dei migranti. La sentenza condanna Lucano a quasi il doppio degli anni di reclusione che erano stati chiesti dalla pubblica accusa (7 anni e 11 mesi). Lucano era imputato di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sentenza è stata letta dal presidente del Tribunale di Locri, Fulvio Accurso, dopo una camera di consiglio che si è protratta per quattro giorni.

L’inchiesta sull’ex sindaco di Riace è stata condotta dalla Procura della Repubblica di Locri, con indagini delegate alla Guardia di Finanza. Nell’ottobre del 2018 Lucano fu anche posto agli arresti domiciliari dalle fiamme gialle con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e dopo il periodo di detenzione fu applicato nei suoi confronti il divieto di dimora a Riace, poi revocato dal Tribunale di Locri nel settembre del 2019. Nel processo Xenia Domenico Lucano è stato difeso dagli avvocati Giuliano Pisapia ed Andrea Daqua.

“Questa è una vicenda inaudita. Sarò macchiato per sempre per colpe che non ho commesso. Mi aspettavo un’assoluzione”, ha detto Lucano a commento della sentenza. “Grazie, comunque, lo stesso – ha aggiunto – ai miei avvocati per il lavoro che hanno svolto. Io, tra l’altro, non avrei avuto modo di pagare altri legali, non avendo disponibilità economica”.

“Una sentenza lunare e una condanna esorbitante che contrastano totalmente con le evidenze processuali”. É il commento degli avvocati Giuliano Pisapia e Andrea Dacqua, difensori di Mimmo Lucano, dopo la condanna decisa dal Tribunale di Locri, che annunciano il ricorso in appello dopo la lettura delle motivazioni. Lucano dovrà anche restituire 500mila euro riguardo i finanziamenti ricevuti dall’Unione europea e dal Governo. É quanto stabilisce la sentenza (resoconto ripreso testualmente dall’agenzia Ansa).

Questa sentenza non si commenta, si rifiuta a priori, perché è frutto di una giustizia burocratica, che butta via il bambino assieme all’acqua sporca. Mi guardo bene dall’approfondire i termini giudiziari della vicenda, resto attaccato al mio “pregiudiziale” pensiero: Lucano ha combattuto contro l’ingiustizia a mani nude, ha tentato di accogliere i migranti a prescindere dai lacci e lacciuoli con cui il sistema lastrica la via di chi vuol fare del bene agli asini (non mi riferisco agli immigrati, ma ai nostri pubblici poteri).

Lucano avrà sicuramente fatto qualche forzatura per superare gli ostacoli dei disfattisti, e così facendo si è messo dalla parte del torto in una società che premia chi non fa un cazzo e chi vomita cretinate a ripetizione. A leggere le imputazioni ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. La sentenza mi sembra un’autentica pagliacciata che si smonterà strada facendo. Nel frattempo però Lucano è un delinquente…

Siccome mi dibatto ormai in una irreversibile deriva arteriosclerotica, mi ripeto a costo di essere deriso e compatito.  Mi sovviene una eloquente esperienza fatta durante la mia vita professionale. Andai a rappresentare le cooperative parmensi (quelle sociali in particolare) aderenti all’associazione in cui prestavo il mio servizio. Dove? In Prefettura! A Parma si intende. Era stata convocata una riunione dei rappresentanti delle forze economiche e sociali in occasione dell’emergenza creatasi in Italia, ed anche a Parma, per la fuga in massa degli Albanesi dal loro Stato in piena bagarre post-comunista. Eravamo alla fine degli anni ottanta, se non erro. Era un afoso pomeriggio estivo: arrivai senza giacca e cravatta e con un po’ di ritardo (fatto strano ed eccezionale per la mia quasi maniacale puntualità) alla riunione che si teneva in un’ampia sala della prefettura, ricca di stucchi ed affreschi. L’incontro si svolgeva attorno ad un grande e lungo tavolo. Non era in funzione l’impianto microfonico e quindi non si capiva nulla. Il collega a cui ero seduto vicino, ad un certo punto mi chiese perché tutti parlassero a così bassa voce. Me la cavai con una stupida battuta: «Probabilmente, bisbigliai, non si può parlare ad alta voce per il pericolo che gli stucchi possano deteriorarsi in conseguenza delle onde sonore?!». Chi riuscì a sentirmi mi guardò scandalizzato: ero arrivato in ritardo, senza giacca e cravatta ed ora osavo fare lo spiritoso in Prefettura? Il dibattito si trascinò stancamente e francamente non ricordo granché dei contenuti: se gli Albanesi arrivati a Parma si fossero aspettati qualcosa di concreto da quell’incontro… Ad un certo punto il Prefetto (non ricordo il nome) fece un attacco nei confronti delle associazioni di volontariato e del privato-sociale in genere, sostenendo che, a suo giudizio, l’impegno non era all’altezza della situazione emergenziale. Non seppi tacere, non sopportai un simile “becco di ferro”. Non ricordo le testuali parole, ma dissi sostanzialmente: «Da uno Stato incapace di affrontare le difficoltà, non sono accettabili critiche a coloro che si stanno comunque impegnando. C’era solo da dire grazie e tacere…». Non ebbi molte solidarietà. Mettersi contro il Prefetto non è tatticamente il massimo dell’opportunismo, immaginiamoci mettersi contro l’autorità giudiziaria inquirente, requirente e giudicante.