Nella sua accezione negativa la retorica è l’atteggiamento dello scrivere o del parlare, o anche dell’agire, improntato a una vana e artificiosa ricerca dell’effetto con manifestazioni di ostentata adesione ai più banali luoghi comuni.
Questa definizione, mutuata dal vocabolario, si attaglia perfettamente a quanto sta mediaticamente succedendo in merito ai campionati europei di calcio per nazioni: una stomachevole ed infinita strumentalizzazione di un evento calcistico trasformato in una penosa occasione di riscatto sociale post pandemico. Solo perché si sono scriteriatamente riaperti gli stadi, i tifosi hanno ripreso a sbraitare sugli spalti, la gente si distrae, i giornalisti sportivi ritrovano spazio per le loro inutili esibizioni.
“Ai colori giallo, arancione e rosso delle zone a rischio Covid abbiamo finalmente sostituito il colore azzurro della nazionale di calcio” così ha commentato un componente dell’esercito rai della perdizione calcistica: uno squallore emblematicamente collegato al peggior modo possibile e immaginabile di (non) voltare pagina. Decisamente insopportabile il clima che si è creato attorno a questo evento sportivo ed estremamente negativa la demagogica riscossa sistemica attorno alla nazionale, degna del peggior fascismo degli anni trenta.
Si sovrappongono e si incrociano lo spudorato rilancio del calcio, le cui sempre più profonde rughe affaristiche vengono accuratamente ricoperte dal fondo tinta nazionalistico, la penosa ripresa del consumismo pallonaro, i cui allocchi ritrovano finalmente “panem et circenses”, il respiro di sollievo di tutto il sottobosco calcistico, che ricicla il suo modo di essere inutile.
Il tutto condito dalla solita e sbracata scenografia celebrativa (almeno potevano risparmiarsi l’inflazionato “nessun dorma” di scomoda pucciniana origine), culminante nell’esecuzione dell’inno di Mameli sbraitato “alla viva il duce”. Quando è stato inquadrato dalle telecamere il canto ispirato del portierone Gigi Donnarumma, mi sono assentato per soddisfare un bisogno fisiologico: mi tocca di vedere questo insulso e ingordo giovanottone, che si atteggia a soldato della patria calcistica. Ma fatemi il piacere…
L’Italia doveva vincere e ha vinto la partita d’esordio con tanto di prematura esaltazione di Roberto Mancini, da tempo scelto come indiscutibile mascotte di un mondo in cerca di santi che scherzino coi fanti. I comunisti di vecchia data, quando l’Italia giocava contro l’Urss, tifavano per i nostri avversari: il povero Pascutti, che ebbe il torto di reagire ad un fallo sovietico facendosi espellere, fu letteralmente considerato un rospo da mettere alle sassate. Ebbene, lo ammetto, l’altra sera ho tifato per la Turchia (nonostante Erdogan), o meglio ho gufato contro l’Italia, sperando che potesse interrompersi sul nascere questa deriva retorica che ci sta inondando.
Vale la pena riprendere le ingenue esclamazioni di mia madre di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche grosso cedimento ha cominciato a verificarsi. Ed ecco allora il puntello del campionato europeo.
Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. Avrebbe un bel daffare oggi, perché la partita non è giocata dai calciatori ma dai media prezzolati, che ne stanno facendo una infinita e smaccata operazione di regime, e perché il calcio è diventato un dopo-partita interminabile fine a se stesso, o meglio finalizzato a ben altro.