Il petulante pulpito europeo

Secondo la corrispondenza di Claudio Tito inviato di Repubblica a Bruxelles, la Commissione europea sposa la linea Draghi sulla politica del lavoro e imprime un altolà al Pd e anche alla Lega che negli ultimi giorni si era affiancata ai Democratici nella richiesta di prorogare ulteriormente il blocco dei licenziamenti.

Nelle raccomandazioni di primavera, approvate ieri nella riunione collegiale dell’esecutivo comunitario, infatti c’è un riferimento esplicito proprio alle polemiche che si sono consumate in questi giorni in Italia. «Politiche come il divieto generale di licenziamento – si legge nel testo – tendono a influenzare la composizione ma non la portata dell’aggiustamento del mercato del lavoro». Sostanzialmente secondo l’Ue, impedire il ritorno ad una situazione fisiologica in questo settore non determina un aiuto ma favorisce semmai discriminazioni tra lavoratori. «L’Italia – osserva la Commissione in maniera diretta – è l’unico Stato membro che ha introdotto un divieto assoluto di licenziamenti all’inizio della crisi-Covid». Non solo. Gli uffici di Bruxelles sottolineano che la misura è in vigore per tutto il mese di giugno e che per alcune categorie è stata prolungata fino al prossimo ottobre. «In pratica – è l’atto di accusa più diretto rivolto contro chi sostiene il provvedimento – si avvantaggiano per lo più i lavoratori a tempo indeterminato a scapito di quelli a tempo determinato come gli interinali e gli stagionali».

Non ho capito sinceramente cosa significhi che il divieto di licenziare tenda ad influenzare la composizione del mercato del lavoro ma non la portata dell’aggiustamento del mercato stesso. Non so se la poca chiarezza dipenda da una frettolosa traduzione o dal criptico linguaggio della Ue. Mi sembra comunque di intuire che, secondo l’Unione europea, l’Italia starebbe distorcendo i meccanismi del mercato del lavoro creando oltre tutto discriminazioni tra lavoratori più o meno protetti.

Fin dall’inizio della pandemia mi sono chiesto se il blocco dei licenziamenti fosse una velleitaria forzatura socio-economica o un necessario sostegno ai lavoratori in probabile difficoltà. Volendo semplificare e sintetizzare l’azione del governo italiano, si possono individuare tre livelli di intervento: aiuto ai lavoratori autonomi; agevolazioni creditizie e fiscali alle imprese; difesa del lavoro dipendente tramite l’utilizzo della cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti. Tutte misure congiunturali che purtroppo si sono dovute allungare ed allargare fino a mettere in progressiva difficoltà la casse erariali e ponendo il problema del recepimento dei fondi necessari alla bisogna.

L’Unione europea sale in cattedra facendo valere da una parte i propri diritti derivanti dall’apertura della borsa, consistente nel recovery plan e nella sospensione dei parametri di bilancio, dall’altra avvertendo l’Italia, l’alunno più portato alla trasgressione, che non ci si può illudere col salvataggio ante litteram di alcune categorie a scapito dell’andamento economico generale.

Mi sembrano richiami doverosi da effettuare anche se alquanto fastidiosi da ricevere. Oltre modo irritante la catalogazione dell’Italia fra gli alunni “cattivi” per aver esagerato nella difesa dei lavoratori. Non mi è piaciuta anche se tutti abbiamo sempre da imparare da tutti. Forse l’errore di fondo che rischia il nostro Paese è quello di considerare, sotto-sotto e un po’ demagogicamente, il lavoro come variabile indipendente rispetto al sistema economico, pensando che il costo, in fin dei conti, lo debba pagare lo Stato. E lo Stato dove trova le risorse, se non paradossalmente da un’economia in grave crisi? Non ci si può cioè illudere di bere il latte munto da una vacca gracile e priva di adeguata alimentazione: muore la vacca e i bevitori di latte restano a bocca asciutta.

Non si può però lasciar fare tutto al mercato del lavoro nel momento in cui manca il lavoro. Bisogna avere la fantasia, la lungimiranza e l’apertura mentale per difendere i più deboli possibilmente senza trasformarli in soggetti garantiti a tutti i costi. Nei momenti di grave crisi economica si diceva che doveva essere la sinistra politica a guidare la macchina imponendo sacrifici a fronte di precisi impegni verso l’equità e la solidarietà sociale. Forse la sinistra non è in grado di candidarsi a tale ruolo, mentre la destra si preoccupa solo di spingere la macchina a costo di buttarla fuori strada.

Riuscirà il governo Draghi ad avere una politica rigorosa ma progressista della ripartenza economica? Riuscirà l’Unione Europea a correggere definitivamente la sua visione burocratica dell’economia di mercato introducendo elementi di socialità in un contesto bloccato sulle regole liberiste?  Forse la pandemia richiede proprio una revisione realistica ma fortemente innovativa dei rapporti economici. In parole povere dovremmo essere un po’ meno capitalisti senza scadere in anacronistiche e velleitarie nostalgie comuniste. Per dirla con Mimì (Bohème, atto primo), altro di me non saprei narrare, sono un incorreggibile amico dei poveri che importuna fuori d’ora i ricchi.