Al tenór ‘d la Repubblica

Nella mia famiglia si discuteva spesso anche di politica e si arrivava persino a rivangare spassionatamente il referendum Monarchia-Repubblica tenutosi nell’immediato dopoguerra. Chiedevo conto ai miei genitori del loro comportamento. Entrambi non nascondevano il loro voto: mia madre aveva votato monarchia, mio padre repubblica. Nel 1946 vivevano insieme da dodici anni, ma ognuno, giustamente, manteneva le proprie idee politiche e le esprimeva liberamente. Mia madre così giustificava la sua difesa dell’istituto monarchico: «Insòmma, mi al re agh vräva bén!». Non un granché come motivazione politico-istituzionale, ma mio padre non aveva nulla da eccepire. Taceva. Io non mi accontentavo e, da provocatore nato, chiedevo: «E tu papa? Cos’hai votato?». Rispondeva senza girarci attorno: «J’ ò votè Repubblica!». Allora mia madre controbatteva che comunque l’opzione repubblicana vinse con l’aiuto di brogli elettorali. A quel punto mio padre si chiudeva in un eloquente silenzio e aggiungeva solo: «Sì, a gh’é ànca al cäz, ma…». Mia sorella invece girava il coltello nella piaga e rivolta polemicamente a mia madre diceva: «Il re, bella roba! Ci ha regalato il duce per vent’anni, poi, sul più bello, se l’è data a gambe. E tu hai votato per il mantenimento di questa dinastia?». Papà allora capiva che la moglie stava andando in difficoltà, gli lanciava la ciambella di salvataggio e chiudeva i discorsi con un: «J éron témp difìcil, an e s’ säva niént, adésa l’é tutt facil…». E magari aggiungeva un aneddoto ad hoc. Nella sua compagnia esisteva un amico dotato di una testa grossa. Per deriderlo bonariamente gli chiedevano: «Se ti a t’ fiss al re, pr’i frànboll con la tò tésta agh’ vriss un fój da giornäl…».

La festa della Repubblica quest’anno ha registrato molte differenze protocollari con le abitudini del passato, ma un seppur timido ritorno alla presenza di pubblico, selezionato e distanziato, dopo mesi di chiusure e contingentamenti. Il 1° di giugno il tradizionale concerto per gli ambasciatori accreditati, si è tenuto nel Cortile d’onore e non nel Salone dei Corazzieri, con l’esecuzione di musiche di compositori europei dedicate all’Italia (Britten, Berlioz, Mendelssohn, Strauss, Martinu, Cajkovskij) da parte dell’Orchestra di Santa Cecilia, diretta da Jakub Hrusa, impreziosito da una performance di Roberto Bolle con Virna Toppi (Pas de deux, da “L’altro Casanova” su musica di Vivaldi). Il concerto è stato preceduto da un breve saluto del Presidente della Repubblica agli ambasciatori stranieri. Non si è tenuto invece il tradizionale ricevimento delle personalità della politica, dell’economia e della cultura nei Giardini del Quirinale (poco male!). Il Capo dello Stato ha pronunciato l’ultimo discorso del suo settennato sulla Festa della Repubblica, della durata di venti minuti, alla presenza del premier Mario Draghi e di tutto il governo. Niente parata militare ai Fori imperiali (meglio così!), chiusi i giardini del Quirinale (un vero peccato).

Gli occhi però erano puntati su Sergio Mattarella alla ricerca di un seppur piccolo segno inerente la fine della sua presidenza. Uno degli argomenti semplici ma decisivi che distingue la repubblica dalla monarchia è proprio il fatto che, mentre il re te lo devi tenere a vita, il presidente scade e se ne torna a casa. In questo momento di grave emergenza nazionale è forte la tentazione di porre la corona sulla testa di Mattarella, investendolo di un ulteriore mandato presidenziale: confesso che ne sarei più che soddisfatto, perché lo considero l’ultimo dei giusti della politica e con lui temo di vedere tramontare un pezzo di repubblica. Sono sicuro che mia madre, convertita alla sua maniera all’istituto repubblicano direbbe: «Insòmma, mi a Matarêla agh voj bén!». Non un granché come motivazione politico-istituzionale, ma questa volta non avrei niente da ridire, anzi. Mia sorella girerebbe il coltello, questa volta nella piaga repubblicana, e aggiungerebbe: “Dopo di lui il diluvio, teniamocelo stretto!”.

Mio padre non avrebbe nulla da eccepire: “L’ha figurè bén bombén e stäma in-t-i primm dan, andäma miga a môvor dal frèdd pr’al let”. Ma non rinuncerebbe ad avanzare un ricordo del passato relativo agli anni della seconda guerra mondiale: in quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Al riguardo è memorabile una sua esibizione in concerto assieme a Renata Tebaldi, accompagnati al pianoforte, al ridotto del Regio: alla fine l’entusiasmo raggiunse l’isteria e voglio credere a mio padre che rammentava come una parte del pubblico fosse in piedi sopra le poltroncine ad applaudire freneticamente dopo l’esecuzione del duetto finale di Andrea Chenier. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore Francesco Merli, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la pesantissima espressione: “va’ al canäl”. Era il luogo dove i parmigiani erano costretti a lavorare inutilmente dall’invasore tedesco. Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come qualsiasi persona, quando si accorge di non essere più in grado di svolgere al meglio il proprio compito, sarebbe opportuno che si ritirasse, prima che qualcuno glielo faccia capire in malo modo.

Personalmente concluderei questa immaginaria conversazione con queste parole: “Stai tranquillo papà, Mattarella non corre questo rischio, siamo piuttosto noi che corriamo quello di rimanere senza tenore, costretti ad ascoltare quelli che la zia definiva i sot-ténor…”.