Una globale questione di forchette

Il gravissimo incidente sulla funivia del Mottarone, che ha causato 14 morti a causa del precipitare della cabina, mi lascia sbigottito per diversi motivi.  Profondamente addolorato per un’autentica strage: non bisogna mai fare l’abitudine a simili anche se ricorrenti episodi. Prevale lo stupore sul dolore e forse non è giusto, perché è il cuore che soffre mentre la mente si interroga.

Ammesso e non concesso che la prima verità emergente dalle indagini della magistratura sia attendibile e non la frettolosa smania di sbattere i mostri in prima pagina (un po’ più di prudente discrezione da parte della procura interessata non avrebbe guastato), pur considerato il fatto che l’opinione pubblica è alla ricerca acritica del capro espiatorio in modo da tacitare superficialmente le coscienze, pur  sgonfiando  il solito accanimento mediatico che naviga sullo sgomento della gente, se, come sembra a prima vista, la causa del disastro fosse riconducibile a una valutazione ottimistica eseguita dal gestore,  basata più sul calcolo delle convenienze economiche piuttosto che sulla considerazione dei rischi umani, saremmo veramente in presenza di una follia  del guadagno a tutti i costi.

I fermati hanno ammesso le responsabilità loro contestate, ha detto il comandante provinciale dei Carabinieri di Verbania, tenente colonnello Alberto Cicognani. “Il freno non è stato attivato volontariamente? Sì, sì, lo hanno ammesso”. “C’erano malfunzionamenti nella funivia – ha spiegato l’ufficiale – è stata chiamata la manutenzione, che non ha risolto il problema, o lo ha risolto solo in parte. Per evitare ulteriori interruzioni del servizio, hanno scelto di lasciare la “forchetta”, che impedisce al freno d’emergenza di entrare in funzione”. Freno disattivato per soldi, per timore del blocco della funivia.

Stento a crederci, le persone chiamate in causa daranno la loro versione. Però il dato emergente sembra proprio essere quello che assieme alla cabina sia precipitato anche un pezzo di umanità dei nostri comportamenti. Non voglio esagerare, ma non posso nemmeno circoscrivere l’accaduto a quel triste incidente. Probabilmente stiamo tutti sbagliando di grosso la scala delle priorità: prima viene l’interesse economico e poi…in subordine la vita delle persone. Rimettiamoci tutti eticamente in discussione: l’aria che tira è questa, prendiamone atto con sgomento e diamoci una scrollata.

Non mi sento di criminalizzare i gestori della funivia (è un compito della magistratura che agirà, almeno me lo auguro, con obiettività ed equilibrio), mi sento invece di colpevolizzare l’andazzo socio-economico in cui stiamo sprofondando. Non intendo fare del sociologismo datato e dell’utopismo fragile, mi basta fare del realismo umano. È già cominciata la cavalcata dei grilloparlanti: tutti sciorinano ricette politiche pronte all’uso.

È scritto nei manuali di sociologia che, quando un’azienda è sull’orlo del fallimento, si tende ad intervenire, limitando drasticamente l’uso di gomme e matite. Non vorrei che, con l’approssimarsi di un fallimento etico del nostro sistema di vita, ci illudessimo di risolvere il problema sbattendo in galera qualcuno che effettivamente l’ha fatta grossa, ma che rispecchia un male ben più largo e profondo della nostra società.

Purtroppo siamo in presenza della punta di un iceberg. Cosa ci sia sotto lo sappiamo benissimo e non facciamo finta che… I famigliari delle vittime, come al solito, opportunamente chiedono verità e giustizia: non so se saremo in grado di corrispondere positivamente a questo grido. Spero comunque che non torni d’attualità la domanda provocatoria che si faceva don Lorenzo Milani: «A cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?».  In noi scatta l’ansia di pulizia, ma, se poi non rivedessimo in profondità i meccanismi dello sporco, saremmo sempre daccapo.