Quelli che fuggono per poi mordere

In riferimento all’atteggiamento verso gli incarichi rivestiti esistono quattro categorie di persone: quelle che rifuggono da ogni e qualsiasi tipo di incombenza ( nella nostra società in cui regna sovrano il protagonismo a tutti i costi, sono sempre meno questi soggetti recalcitranti); quelle che puntano spasmodicamente all’accaparramento di ogni e qualsiasi ruolo, meglio se ben remunerato e/o se ben in vista (sono gli arrampicatori sociali ante litteram); quelle che fanno finta di essere disinteressate e distaccate (si dimettono con la riserva mentale di tornare in sella più belli e più superbi che pria, sono parecchi e ancor più fastidiosi degli arrivisti dichiarati); quelle che hanno quasi la libidine della rinuncia, in essa si autoesaltano e trovano soddisfazione (faccio parte di quest’ultima categoria, un po’ per celia e un po’per non morir).

Non ho intenzione di improvvisare un saggio di psico-sociologia spicciola, ma solo di estrarre dal mio armamentario dialettico lo strumento utile a interpretare certi passaggi politici piuttosto strani e opachi. Mi riferisco a due personaggi che non si assomigliano al punto da essere venuti ai ferri corti. Enrico Letta venne letteralmente fatto fuori da Matteo Renzi dopo la ormai famosa battuta dello “stai sereno”: rimase così mortificato che decise di abbandonare la politica per dedicarsi all’insegnamento della politica (uno strano modo di cavarsene fuori, rimanendo attaccati al settore tramite un filo di acciaio inossidabile). Matteo Renzi dichiarò di volersi ritirare a vita privata qualora avesse perduto il referendum sulle riforme costituzionali: lo perse, si ritirò però fino a mezzogiorno. Questi due signori rientrano entrambi nella categoria dei finti-Cincinnato, che non tornano ad arare il loro terreno (anche perché, tutto sommato, non ce l’hanno) e condurre una vita fuori dall’agone politico (forse non ne sono capaci), ma si accontentano di svoltare l’angolo e di nascondersi dietro una comoda colonna in attesa di tempi migliori per rientrare in pista.

Renzi ha fatto un suo partitino (Italia viva) per riconquistare spazio di manovra, ha manovrato e sta manovrando contro tutto e tutti e forse non ci sta capendo più niente nemmeno lui. Probabilmente voleva distruggere il su ex partito (il PD, la sindrome dello spretato), voleva mandare in frantumi il M5S (dopo aver teorizzato e realizzato un accordo tattico con esso), voleva far fuori Giuseppe Conte (che stava prendendo troppo piede, intingendo la penna nel calamaio di centro a cui mirava lo stesso Renzi), voleva mandare in vacanza la politica (col governo Draghi) per guadagnare tempo. Obiettivi apparentemente tutti raggiunti, ma per costruire non basta distruggere, a volte serve, però prima o poi bisogna avere in testa un progetto e cercare di realizzarlo (mi sembra un discorso molto lontano dall’attuale orizzonte renziano).

Anche perché sta rispuntando il fantasma di Banco, quell’Enrico Letta a suo tempo defenestrato senza troppi riguardi. Anche lui ha fatto finta di abbandonare la politica, vive a Parigi dove insegna alla prestigiosa facoltà di Sciences Politiques e dirige la Scuola di affari internazionali. È bastato un timido richiamo proveniente dalla foresta piddina, sempre in gran subbuglio, per fargli cambiare repentinamente idea e farlo tornare sui suoi passi. Gli hanno chiesto il sacrificio di portare il Pd in salvo (come si fa con gli allenatori di una certa esperienza) e lui non si è fatto pregare più di tanto ed è tornato in sella.

La vita politica è piena di dualismi, più o meno seri: quello tra Renzi e Letta non mi sembra il massimo della serietà. Staremo a vedere. Quel PD, che Renzi voleva distruggere o comunque depredare suonando le sue trombe, si ripresenta suonando le campane di una enigmatica festa lettiana. Il cliente scomodo, che molti ritenevano uscito per sempre dall’orizzonte piddino, è sempre tra i piedi come una sorta di perpetua pietra d’inciampo.

Matteo Renzi parla molto, chiacchiera troppo, spesso a sproposito; Enrico Letta parla poco, tace fin troppo. Entrambi non si riesce a capire cosa vogliano e dove vogliano andare. Il primo lo definirei un pesce in barile, il secondo un pesce lesso. Ogni simile, in fin dei conti, ama il suo simile. Vuoi vedere che troveranno un modus vivendi? Per ora sembra addirittura che si prefiguri al contrario un rientro nel PD della fazione antirenziana per eccellenza (Leu), però mai dire mai. Magari tutti insieme appassionatamente in un partito democratico ricompattato con Letta alla segreteria, Renzi alla presidenza del Consiglio, Bersani e D’Alema a tirare i fili (ruolo che non hanno mai smesso di svolgere) di un teatrino fallimentare. E pensare che nel PD ci credevo e lo ritengo, nonostante tutto, l’unico vero partito esistente in Italia. Peccato che dei partiti tradizionali abbia tutti i difetti, ma ben pochi pregi.