L’unica risposta alle bestemmie della disperazione

Il 18 marzo 2020 a Bergamo i camion dell’esercito portarono via centinaia di bare con morti destinati alla cremazione fuori città. Negli occhi di tutti quell’immagine straziante fu percepita e rimarrà come simbolo della tragedia provocata dal covid, una tragedia in cui purtroppo siamo ancora immersi e solo Dio sa se e come potremo mai uscirne.

Giusta e opportuna l’idea di eleggerla come giornata del ricordo delle vittime. Speriamo non diventi mai l’occasione per celebrazioni di mera circostanza. Ho il massimo rispetto per le parole pronunciate dalle autorità civili, condivido pienamente il senso di commozione e di solidarietà espresso nelle diverse sedi istituzionali e sociali.

Proprio in data 18 marzo 2020 scrivevo in un mio commento ai fatti del giorno: è angosciante pensare ai malati confinati, nella migliore delle ipotesi, nel proprio appartamento o addirittura in una stanza della propria abitazione, ben peggio in una camera ospedaliera, o peggio ancora in un letto di un reparto di terapia intensiva o peggio ancora in una solitaria agonia. La solitudine è rotta dalla presenza dell’eroico personale ospedaliero, costretto ad un lavoro massacrante, a rischiare la pelle per aiutare i malati, a vederli morire, a fare scelte terapeutiche probabilmente drammatiche e paradossali. L’isolamento riguarda e paralizza i rapporti umani con i propri famigliari, con i propri amici ed anche con la comunità cristiana di appartenenza. Quanti fratelli e quante sorelle sono morti e stanno morendo senza nemmeno “un cane che gli lecchi le ferite”, ancor più soli del povero Lazzaro, senza il conforto delle persone amate, senza il viatico sacramentale, senza un sacerdote che li assolva dai peccati, senza qualcuno che li accompagni nell’ultimo viaggio, persino senza un rito esequiale dopo la morte. Ho pensato a questo e ne sono rimasto letteralmente sconvolto. È il più brutto aspetto di questa tremenda epidemia.

In una successiva occasione mi sono permesso di aggiungere una (quasi) bestemmia (?), proveniente dall’angoscia e dalla paradossale contraddizione della sofferenza, che porta sempre alla solitudine, ma non totale. Gesù sulla croce si sente solo e abbandonato, ma c’è sua madre Maria, sua zia Maria di Cleofa, c’è la Maddalena che lo ama svisceratamente, c’è il discepolo amato, c’è la sua umana famiglia da cui Lui fa scaturire la Chiesa. Anche allora vi era il divieto di avvicinare i condannati a morte, di toccare i cadaveri, in un mix umano-etico-religioso di regole per evitare un diverso, ma ben più paradossale, contagio. Il dolore dei moribondi covid rischia pertanto di andare oltre quello di Cristo.  È tutto dire.

Ecco perché personalmente resto alla ricerca di un senso profondo da dare a tale interminabile evento di dolore, sofferenza, lutto e pianto.  In questi giorni ho ascoltato su internet parole che mi hanno umanamente, culturalmente e cristianamente, rasserenato: la lectio del cardinale Gianfranco Ravasi, tenuta il 25 giugno 2017 al Policlinico Gemelli in occasione della XXV Giornata Mondiale del Malato, sul tema: “Il dolore innocente: sfida per la fede”.

In essa è contenuto qualcosa di fondamentale, che peraltro torna di grande attualità nel clima di sofferenza che stiamo vivendo: senza presunzioni teologiche e senza scappatoie clericali, viene avanzata l’unica vera ragione del credere, in base a Cristo, il Dio che paradossalmente decide di soffrire con e come noi.

Ravasi è un gigante – peraltro riesce ad esprimere concetti di una profondità pazzesca con una proprietà di linguaggio unica, con una semplicità di esposizione disarmante e con un approccio laico molto invitante ed esauriente – davanti al quale mi sento meno di un nano, ma ha la capacità di sollevarmi dalle mie miserie e povertà umane, morali, culturali e religiose.

Il porporato ha articolato la sua riflessione partendo dall’oscurità e dalla mancanza di senso, il cardinale Ravasi osserva: «Il dolore spesso genera disperazione; non bisogna giudicare questo stato d’animo». Da qui l’affermazione di Martin Lutero: «Dio, probabilmente gradisce molto di più le bestemmie dell’uomo disperato, che non le lodi compassate del borghese benestante la domenica mattina durante il culto». E dall’oscurità che ogni tanto attanaglia il credente e il non credente, non è esente l’uomo di Chiesa.

Di fronte alla questione della presunta impotenza/ostilità di Dio, riassunta nell’interrogativo che spesso suscita ribellione “Dio non toglie il male perché non può o non vuole?”, il porporato ha poi spiegato che male e sofferenza sono strutturali alla creatura che di sua natura comprende questo limite: «Ma la risposta – aggiunge Ravasi – risiede nella “cristologia della sofferenza”. Dio decide di entrare attraverso il Figlio in questa qualità che non è sua, nella nostra carta d’identità, la realtà umana. E nel racconto della passione, gli evangelisti si sforzano di far patire a Cristo tutti i mali possibili, paura della morte, solitudine, tradimento degli amici, tortura, crocifissione e morte per asfissia, ed è una gran brutta morte, ma l’apice è il silenzio del Padre».

Secondo la tesi di Ravasi, il dolore umano viene attraversato dal divino: «Per questo – aggiunge – non è più come prima. Proprio perché Cristo non cessa di essere Figlio di Dio, Egli assumendo il dolore e la morte lascia in essi un germe di divino e di luce. Grazie a questa condivisione per amore, Dio non ci guarisce dal dolore, ma ci sostiene in ogni sofferenza».

Per approfondire ancora meglio il concetto, il cardinale ha citato Dietrich Bonhoeffer, l’oppositore di Hitler ucciso in un lager: “Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta… Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza”. Nella sua lectio sul dolore innocente, il porporato ha poi affermato: «Dio soffre in Cristo, che nella sua vita terrena è diventato fratello dei sofferenti».

A conclusione Ravasi ha ricordato la commovente testimonianza di un ateo, agnostico e anticlericale come Ennio Flaiano, padre di una bambina colpita a otto anni da encefalopatia. Dopo la morte dello scrittore, venne trovato tra le sue carte l’abbozzo di una sceneggiatura per un film dedicato al ritorno di Cristo sulla terra, circondato e infastidito da tv e giornalisti, attento solo ai malati e agli ultimi: “Non voglio che tu la guarisca – chiede nel film a Gesù un uomo portando con sé la sua bambina malata che cammina a fatica –, ma voglio solo che tu l’ami”. Gesù, scrive Flaiano, baciò quella ragazza e disse: “In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare”.

Non trovo altro senso alla sofferenza in genere ed all’immane tragedia che ci ha colpito, tale da togliermi dalla disperazione. A chi osa contestare questa mia convinzione, considerandola magari una pia illusione, rispondo con rispetto ma con altrettanta convinzione alla maniera di mio padre. Quando qualcuno definiva assurda e meramente consolatoria la risposta cristiana ai misteri della vita, della morte e del dolore, mio padre era capace di fare da laico un passo indietro e rispondere: “Alóra, catni vùnna ti !!!”.

Per me quindi la risposta all’immagine della tragica sfilata dei camion con le bare dei morti da covid non può che essere la scena eloquente e coinvolgente di papa Francesco, che tocca il Crocifisso in una piazza san Pietro svuotata di tutto e piena solo di paura. La paura tende a crescere, ma solo il Crocifisso è sempre lì a rassicurarci. A gridare per noi e con noi: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.