Il rigorismo irride al rigore

A leggere le regole dettate per i comportamenti dei cittadini in zona rossa, c’è di che rimanere sbalorditi, non tanto per i sacrifici imposti dalle restrizioni, ma per le incongruenze e le assurdità che si intravedono. Ne prendo una a caso, a mio giudizio una delle più clamorose ed assurde.

Non si possono visitare parenti e amici residenti in altri ambiti territoriali: se ho mia madre che abita sola ed ha bisogno di conforto e di aiuto, cosa faccio? Rientra nei casi di necessità? A stretto rigore direi di no! Usando il buon senso direi di sì. Mentre il rigore della legge (?) è scritto, il buonsenso è lasciato alla discrezionalità di chi controlla. Non voglio offendere nessuno, tanto meno chi si fa il mazzo per contenere le cazzate dei “furbetti della zona rossa”. Però mio padre, che la sapeva lunga, con una simpatica ed “anarchica” battuta fucilava l’autoritarismo dall’alto al basso e dal basso all’alto: “A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt, al dventa un stuppid”.

La responsabilità tuttavia non è di chi ha il berretto in testa, ma di chi gli carica la testa. In occasione di un torneo di calcio giovanile giocato in notturna allo stadio Tardini, gli organizzatori posero all’ingresso una persona molto rigorosa con la mission di non fare entrare nessun estraneo e per nessun motivo. Detto e fatto.  Quando cominciò a scendere la sera, si presentò l’addetto all’impianto di illuminazione: non ci fu verso di convincere il controllore a lasciarlo entrare. L’operaio piuttosto irritato disse: “Ebbene, io me ne vado al bar qui di fronte e aspetto; se avete bisogno mi venite a chiamare…”. Cominciò a farsi scuro e dagli spalti piovvero non poche grida del tipo: “Pioción…il  luzi… o vriv ‘na candela…”. È facilmente immaginabile l’imbarazzo degli organizzatori del torneo, messi alla berlina e beffeggiati. Si scatenarono i rimproveri sulla testa del povero controllore dell’accesso allo stadio: si prese lui la colpa, ma in realtà la responsabilità dell’accaduto era ascrivibile a ben altri soggetti più altolocati, comodamente seduti in tribuna vip.

Il governo dei tecnici mi sta, tutto sommato, simpatico, ma, in un certo senso, comincia a “rampärom su par ‘na bräga”. Marta Cartabia è una costituzionalista, giurista e accademica: dal 13 febbraio 2021 è ministro della giustizia nel governo Draghi. Dal 2019 al 2020 è stata presidente della Corte costituzionale, diventando la prima donna a ricoprire tale carica. Prima di occuparsi del sesso degli angeli (forse sarebbe meglio dire degli angoli) della riforma della giustizia, non poteva almeno sciacquare in Arno le regole del finto lock down, cercando di renderle agibili prima di darle in pasto ai cittadini sempre più indispettiti ed ai controllori sempre più spazientiti? Bastava poco… mai come nella situazione in cui stiamo vivendo è opportuno abbandonare i massimi sistemi per affrontare le questioni elementari, quelle che ci lasciano vivere.

Già comunque le autodichiarazioni mi irritano, figuriamoci se dovessi scrivervi sopra che vado a casa di mia madre che sta male e ha bisogno di assistenza. Chi controlla mi crederà? Mi farà perdere un sacco di tempo prezioso? Mi scorterà fino all’abitazione di mia madre? La interrogherà? Magari lei, per non disturbare, negherà di avere bisogno. E allora? O merda o brétta rossa!!! Cosa significa? Non mi resterà che inoltrare una richiesta di risoluzione ministeriale al riguardo. Chissà che la ministra Cartabia non scenda dall’olimpo e cominci ad interessarsi di noi poveri mortali in zona rossa.

Mio padre si divertiva a raccontare uno strano e paradossale episodio che lo aveva visto quale malcapitato protagonista alla stazione di Parma. Vorrei ricordarlo, perché merita una certa attenzione. Da zio affettuoso e premuroso aveva accompagnato in stazione una nipote di Genova che ci era venuta a far visita per qualche giorno con i suoi figli ancora molto piccoli. Valigie e bambini avevano consigliato mio padre a salire sul treno in partenza per poter meglio collocare il bagaglio e salutare i nipoti. Tutto fatto, scende dal treno.  Ed ecco un addetto della polizia ferroviaria si avvicina e chiede il biglietto. Risposta ovvia: “Non ho biglietto perché non ho viaggiato, sono salito solo per aiutare mia nipote.” Replica: “Per me lei è un viaggiatore che scende dal treno senza biglietto, favorisca i documenti.” Spazientito, ma corretto, si reca con il poliziotto nel piazzale antistante la stazione, dove aveva parcheggiato la motocicletta, per esibire la patente. Verbale redatto nonostante le resistenze. Dopo qualche giorno arriva a casa una sonora contravvenzione e mio padre, inizialmente orientato a pagare e tacere si lascia convincere a ricorrere al pretore. Processo bello e buono. Il giudice capisce la situazione quasi da farsa e chiede al poliziotto: “Ma a lei non è venuto in mente che, avendo la motocicletta nel piazzale, l’imputato potesse avere raccontato una verità piuttosto plausibile?” Risposta: “Per me era un viaggiatore che scendeva dal treno ed era senza biglietto!  “Assoluzione con formula piena”, nemmeno la sanzione per non aver pagato il biglietto entrando in stazione (allora per il solo fatto di varcare la soglia della stazione si doveva corrispondere un piccolo obolo), perché ormai tutti non osservavano tale obbligo (cominciando dai nonni che conducevano i nipotini a vedere il treno). Mio padre si pavoneggiava, assai divertito, per aver provato l’emozione di sedersi sul banco degli imputati, ma la morale dell’episodio la lascio tirare ai lettori.

Papà, sia chiaro, non infieriva sul poliziotto, non era nel suo stile, traduceva l’episodio in stile di vita: far del bene, a volte, costa doppiamente caro, mentre chi vuol fare i cazzi suoi può continuare a farli senza timore di essere disturbato. Quanto al berretto in testa (autorità), ho già detto anche troppo. D’altra parte i controlli non sono forse uno dei punti deboli della strategia anti-pandemica?