Lavorètt, lavorón e lavoréri

Confesso che le votazioni più striminzite negli esami del corso di laurea in Economia e Commercio le ho avute in matematica e statistica. Niente di strano quindi che faccia una certa fatica ad interpretare i dati riguardanti l’andamento occupazionale nel nostro Paese: gli ultimi segnano un calo della disoccupazione al 10,8%.

Anziché insistere sulla scomposizione di questo dato, che sembra fatto apposta per accendere discussioni, riconducibili più o meno al discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, preferisco ripiegare sul numero dei disoccupati che risultano essere 2 milioni e 791.000: una fotografia piuttosto impietosa, che rende l’idea del grave problema occupazionale, da cui discendono drammatiche conseguenze sul piano economico e sociale.

In parallelo a questo dato ne emerge un altro riguardante gli occupati in nero, cioè quei lavoratori che vivono in un cono d’ombra non monitorato: sarebbero, secondo il focus Censis-Confcooperative, oltre 3,3 milioni, persone più o meno sfruttate, nascoste od auto-nascoste a fini di evasione fiscale e contributiva, nonché per coprire illegalmente doppi o tripli lavori.

Non riesco innanzitutto a capire se il dato del lavoro nero sia compreso o meno in quelli dell’occupazione e della disoccupazione che l’Istat ci propina: mi chiedo cioè se i 2.791.000 disoccupati siano al netto degli occupati in nero oppure al lordo. Nel primo caso arriveremmo ad avere sei milioni di persone non a posto dal punto di vista lavorativo, per mancanza di lavoro e per   mancanza di regolare inquadramento. Nel secondo caso invece facendo la somma algebrica tra disoccupati e lavoranti in nero avremmo addirittura un saldo positivo, anche se non è detto che i disoccupati lavorino o possano lavorare in nero; certamente però, pur prescindendo da valutazioni di carattere legale e morale, la situazione lavorativa globale sarebbe assai meno drammatica di quanto appaia. Di lavoro ce ne sarebbe, anche se in parte sommerso.

Se aggiungiamo i posti di lavoro che le aziende non riescono a coprire per mancanza di preparazione professionale a livello di offerta, il discorso occupazionale si ridimensiona o almeno assume connotati diversi, perché alla scarsità, precarietà, irregolarità e fraudolenza della domanda si accosta un’offerta impreparata, indisponibile e financo truffaldina.

Sarebbe importante chiarire i termini della questione, mentre il dibattito, anche quello elettorale, resta ingessato fra chi vanta in questi anni un milione di posti di lavoro in più e chi smonta masochisticamente il miglioramento considerandolo la vittoria di Pirro del lavoro precario su quello a tempo indeterminato. A questi ultimi risponderei che è sempre meglio lavorare senza certezze che non lavorare per niente in attesa di certezze, che forse non arriveranno mai.

Qualche tempo fa un amico mi ha raccontato un episodio quasi sconvolgente in materia di lavoro per i giovani: un’azienda in fase espansiva aveva ingaggiato un giovane per lanciare commercialmente un nuovo prodotto inquadrandolo con un contratto part-time in attesa di verificare le prospettive di mercato. Dopo la fase iniziale fortunatamente positiva, sia per l’azienda che per il lavoratore, diventò fattibile la trasformazione del rapporto in full time, se non ché il giovane lavoratore rifiutò la proposta con la motivazione del tempo libero: lui doveva garantirselo in quanto appassionato ed assiduo frequentatore di palestra ginnica. Spero non sia un comportamento emblematico, ma temo che in materia di lavoro occorra fare chiarezza a livello di mercato, a livello aziendale ed a livello personale.

Per trovare un’occupazione, precaria o definitiva che sia, bisogna innanzitutto avere la mentalità e l’assoluta disponibilità al lavoro, poi viene il resto. Sono stato educato in tal senso in modo quasi esagerato ma giustissimo. Quando mi si prospettò quello che sarebbe stato il lavoro di tutta la mia vita, ebbi qualche perplessità nell’accettarlo dal momento che sembrava non proprio confacente alla mia preparazione scolastica e molto impegnativo a livello di responsabilità e di orari. Chiesi consiglio al mio miglior amico, il quale da tempo era inserito nel mondo del lavoro. Non si perse in chiacchiere, mi fulminò con una battuta dialettale eloquente e non ammise repliche: «Bèca, bèca!». Beccai, vale a dire accettai quel posto di lavoro e si rivelò impegnativo ma soddisfacente. Erano altri tempi, ma…