Molto impegnativo il quesito posto da mia madre al fratello sacerdote in ordine alla convivenza col marito, apparentemente non credente. Doveva tentare un improbabile proselitismo? Doveva porre il problema con una certa enfasi? Doveva provocare discussioni sul punto? Mio zio che conosceva l’onestà intellettuale e lo spessore morale di mio padre, rispondeva con un laconico ma apertissimo atteggiamento:“Lasol stär acsì”; adottava l’interpretazione, da me ascoltata e convintamene recepita, di un passo evangelico piuttosto delicato, laddove Gesù afferma: “Chi non crederà non sarà salvo”; da intendersi: “Chi non amerà non sarà salvo”.
A distanza di ottant’anni papa Francesco afferma: «Evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, cioè per testimonianza, lo ha detto Benedetto XVI. Evangelizzare è testimoniare come vivere il Vangelo e in questa testimonianza ci sono conversioni. Ma noi non siamo entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, si parla, per cercare che sia la risposta a qualcosa che lo Spirito ha mosso nel cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Nel pranzo coi giovani a Cracovia uno mi ha chiesto: cosa devo dire a un compagno di università amico bravo ma ateo? Cosa devo dirgli per cambiarlo, per convertirlo? La risposta è stata questa: l’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo e se lui ti domanda perché, gli puoi spiegare perché lo fai e lascia che lo Spirito Santo lo attiri. Questa è la forza: la mitezza dello Spirito Santo. Non è un convincere mentalmente con spiegazioni apologetiche. Noi siamo testimoni del Vangelo. Il proselitismo non è Vangelo”».
Mio zio sacerdote era quindi un profeta? Direi proprio di sì, e anche coraggioso, perché negli anni quaranta del secolo scorso non era facile sostenere simili tesi. Mia madre, di fronte a quella risposta si tranquillizzò in coscienza, mio padre continuò ad essere un galantuomo diversamente credente. Il problema sono io, che non sono tranquillo in coscienza perché non sono sicuro di essermi sempre comportato da galantuomo. Confido nello zio protettore, porto il suo nome.
Come ho ripetutamente scritto la mia vita, spiritualmente parlando, parte da una scena, che peraltro mi riguarda direttamente anche se avvenne appena prima della mia nascita, così delicata e commovente da mettermi i brividi. Lavinia, mia madre, era in attesa del secondo figlio, dopo quattordici anni dalla nascita della primogenita e mancavano pochi giorni al lieto evento. Ennio, suo fratello sacerdote, a trentacinque anni, era devastato da una tremenda malattia ed era perfettamente consapevole della ormai prossima fine. Mia madre, con il suo enorme pancione, si recò in visita allo zio (era un “rito” di tutte le sere) e quella volta trovò il coraggio di chiedergli se, nel caso in cui nascesse un maschio, avrebbe avuto piacere che lo chiamassero con il suo stesso nome, Ennio. Si trattava di un omaggio, ma anche di una elezione a protettore di tutta la dinastia, in quel momento da me prematuramente e indegnamente rappresentata. Nacque il maschio, lo chiamarono Ennio, lo battezzarono al cospetto del sempre più sofferente sacerdote, la zia suora lo porse in fasce al bacio di benedizione.
Se con queste premesse mi dovesse capitare di precipitare nel regno degli inferi, vorrà proprio dire che ce l’avrò messa tutta di mia spontanea volontà. Pochi giorni dopo il mio battesimo lo zio Ennio finiva il suo calvario, terminava le sofferenze accettate, o meglio offerte, in un cammino di autentica santità e…profezia. Mia madre, che ammirava il fratello prete, come più non si può, tra il serio e il faceto, gli pronosticava una carriera ecclesiastica di grande portata: «Diventerai, come minimo, papa…». Lui ci faceva sopra una sana risata. Forse oggi lo zio Ennio sacerdote, tramite Francesco, è diventato, un pochettino, papa.
Nella mia vita ho avuto il dono di nascere, crescere e vivere all’ombra di profeti: l’infanzia e la giovinezza con un’educazione religiosa illuminata dal ricordo vivo e palpitante dello zio sacerdote; la maturità caratterizzata dall’amicizia con “preti conciliari”; l’anzianità ravvivata dalla testimonianza scomoda di don Luciano Scaccaglia, un prete di frontiera. Una bella ma gravosa sommatoria di responsabilità: io…speriamo che me la cavo….